Uno degli appuntamenti clou della stagione scaligera è la creazione di Angelin Preljocaj sulla Winterreise di Schubert presentata in prima assoluta in queste settimane . Un momento importante per la vita della compagnia milanese – Silvia Poletti
A differenza di altre compagnie di balletto istituzionali di analoga rilevanza il Ballo della Scala si concede un’unica creazione/novità assoluta l’anno. La scelta dell’autore e la sua autorevolezza sulla scena internazionale diventano così subito importanti per capire molte cose, sia sulle linee artistiche e il percorso di maturazione e di sviluppo che la direzione vuole dare alla compagnia, sia il “peso” stesso della formazione nel mercato internazionale. Brutto da dirsi ma è così. I grandi autori oggi su piazza faticano infatti ad accettare progetti con danzatori e organizzazioni di standard non così affidabili: i loro planning sono del resto pianificati ad anni di distanza, mentre spesso la programmazione italiana – specie nel balletto – subisce contrazioni e tagli all’ultimo minuto.
Nel corso delle ultime stagioni autori italiani (l’ultimo, Eugenio Scigliano) si sono alternati a coreografi internazionali (lo scorso anno la canadese Aszure Barton): il prossimo anno tornerà molto probabilmente Mauro Bigonzetti – direttore lampo prima dell’avvento di Olivieri. Il quale ha fatto proprio quest’anno il colpo più interessante dell’attuale direzione (oltre all’impegnativa proposta di Woolf Works di Wayne McGregor in arrivo ad aprile) con la produzione originale di Winterreise a firma Angelin Preljocaj.
Intelligente, colto, rigoroso e audace, il teatro di danza di Preljocaj l’ha portato a diventare una figura fra le più apprezzate della danza di oggi; certo quella di maggior rilevanza (insieme a Maguy Marin), tra quelle fiorite nei tempi belli e “sregolati” della Nouvelle Danse Française che, come una inesorabile onda lunga (complice una sapiente politica culturale dell’allora governo francese), invase tutta Europa e stimolò la cosiddetta coreografia d’autore.
Preljocaj è coreografo nel senso pieno del termine: compone nello spazio, ragiona sulle dinamiche, le sequenze di movimento, le interrelazioni tra danzatori. Predilige il segno asciutto, quasi scolpito, spesso dai bagliori d’acciaio, più che il caldo languore fisico. Come spesso ribadisce, il corpo è al centro della sua ricerca: il corpo inteso come massa e scheletro, ma anche mente e anima, e l’emozione, per lui, si enuclea in gesti, in muscoli tersi e guizzanti, in cadute a terra e busti che si incurvano, in piccoli guizzi di energia, in linee nitide di braccia e di gambe.
Ciò nonostante, seppure intrigato anche dalla sensualità in tutte le sue accezioni (come ci ricorda un antico gioiello, Liqueurs de Chair, o il celebre duetto finale di Le Parc, con il bacio volante più iconico della danza) appare sempre trattenuto, verrebbe da dire “rappreso”: la sua fantasia ha bagliori siderali, ma scalda con fatica; della sua danza colpisce il motion, raramente l’emotion. Il suo sguardo, nelle dinamiche delle emozioni, è più da scienziato interessato all’osservazione microscopica dei meccanismi e delle cause, che da filosofo che accarezza e pondera su temi esistenziali affascinanti come quello sotteso nella Winterreise: il lungo avvicinamento al suicidio.
Così anche nell’attesa creazione scaligera, sul celebre ciclo di lieder che Franz Schubert concluse pochi mesi prima di morire ( e così pervasi da una Sehnsucht romantica che vibra nei canti, ma soprattutto nelle risonanze del pianoforte), manca proprio quell’empatia che consenta alla danza di entrare nella dimensione espressiva ed emozionale della musica, in un reciproco, fondamentale scambio di emozioni e suggestioni.
I ventiquattro lieder schubertiani che evocano le sofferenze, la nostalgia e il rimpianto, l’illusione e la perdita della speranza del Wanderer che nella notte d’inverno si avvia, probabilmente, alla morte, diventano altrettante danze che puntano per lo più a simboleggiare attraverso il movimento assoluto, l’irrequietezza del personaggio o la sua disperazione; ma anche elementi della natura nemica dentro cui si muove – il vento, il gelo, l’acqua turbinosa. Si potrebbe parlare di lettura impressionista, di trascrizione dei lieder in haiku coreografici – sintetici e per loro natura antidescrittivi – dove un ventaglio agitato in una specie di veloce quadriglia allude alle banderuole della poesia schubertiana o il turbinare in lunghe gonne nere allude ai flutti agitati del fiume. Ma l’evocazione è elusiva, si trattiene poco nelle sequenze danzate con rigore, nelle pose scandite, nei gruppi plastici che si muovono elegantemente nello spazio, talvolta emettendo strani suoni.
A tratti, però, l’antidescrittivismo così ricercato da Preljocaj si trasforma inaspettatamente nell’esatto contrario. Fogli bianchi mossi nello spazio e ricomposti come tessere di un patchwork sembrano calcare il testo del lied. La posta in cui si canta dell’inutile attesa di un messaggio d’amore; due tubi fluorescenti sono mossi come algidi indicatori stradali nell’omonimo lied; movenze alate, e camminate aggrucciate in cappottini neri rimandano alle cornacchie in cui il Wanderer si imbatte nel lied n.15. Ed è proprio questo alternarsi tra spunti coreografici e teatrali diversi alla lunga stranisce più che coinvolgere lo sguardo e l’attenzione, mentre la tensione drammatica, nel suo sviluppo coerente e inesorabile, risulta alla fine affidata davvero solo al pianoforte meditativo di James Vaughan e all’espressivo canto di Thomas Tatzl che solo per poco interagisce con la scena e sta per lo più in proscenio.
Avvolti in un oscuro paesaggio di neve cinerea – cupa come l’anima del Wanderer – e abbigliati in una lunga serie di costumi essenziali e strutturati (non tutti azzeccati) per lo più neri, e solo alla fine con guizzi di colore, i tredici danzatori danno la loro fisicità disciplinata ai segni tratteggiati dal coreografo e miscelano con padronanza un linguaggio rigoroso ed energico alla cantabilità del legato neoclassico che dà spesso salvifico respiro ai pre-concetti di Preljocaj. Tra di loro spicca Christian Fagetti in grande evidenza, ma è l’intero ensemble che si merita l’apprezzamento e il caloroso applauso finale.
Visto al Teatro alla Scala il 30 gennaio 2019. Repliche il 1° febbraio, il 9 e 10 marzo 2019. Foto cortesia Teatro alla Scala, © Brescia-Amisano