La rassegna emiliano-romagnola che si è appena conclusa è stata una delle più memorabili degli ultimi anni. Proprio l’eccellenza artistica mostrata da artisti e gruppi internazionali (ripro)pone alcune problematiche legate al nostro sistema produttivo/riproduttivo – Renato Palazzi
1) In merito al “Vie Festival” che si è appena concluso a Modena, Bologna e in alcune località del territorio, vorrei aggiungere alle recensioni già pubblicate da Maria Grazia Gregori qualche ulteriore considerazione di ordine generale. Quello promosso e organizzato da Emilia Romagna Teatro è stato nell’insieme un bellissimo festival, uno dei più belli degli ultimi anni: durata giusta, una decina di giorni, senza inutili dilatazioni del programma, numero di spettacoli giusti, una ventina, di cui circa la metà stranieri. Questa impostazione avrà certo comportato un ingente investimento, ma rispetto a certe rassegne milionarie e altamente dispersive, prive di una linea definita, ha dimostrato che l’importante non è la quantità, che non si addice alla dimensione mirata di un festival, ma la qualità innovativa delle proposte.
2) Al di là dell’eccellenza artistica della maggior parte degli spettacoli presentati, la scelta che più ha funzionato è stata a mio avviso quella di far conoscere dei talenti che non erano mai approdati in Italia, e che probabilmente lasceranno nel tempo una profonda impronta. Per quel che ho visto, credo che alcuni di questi spettacoli segnino dei passaggi per certi aspetti fondamentali, in particolare quelli di Blanco e di Mundruczó, e forse con un’originalità meno spiccata quello di Kourtakis (nella foto, il suo Failing to levitate in my studio). Già in passato, d’altronde, “Vie” ci aveva fatto conoscere i Rimini Protokoll, il Belarus Free Theatre, il Collettivo Cinetico, e aveva ospitato l’illuminante By Gorki di Alvis Hermanis, mentre alla vicina Parma, dove fino a pochi anni fa si svolgeva un altro bel festival, dobbiamo la scoperta di Nekrosius e dello stesso Hermanis. Senza esagerare, ho l’impressione che El bramido de Düsseldorf di Blanco e Imitation of life di Mundruczó si collochino più o meno a quei livelli. E l’ingegno dirompente di Blanco mi ha fatto pensare all’irruzione sui nostri palcoscenici, nel 2003, dell’estro ribelle di Rodrigo Garcìa.
3) Il programma di “Vie” 2019 ha efficacemente documentato le varie declinazioni di ciò che viene genericamente indicato come teatro contemporaneo, che non è solo il teatro che si fa oggi, ma è una frastagliata linea di tendenza che rimanda a certi percorsi, a certi ambiti di ricerca: di questa molteplicità di esperienze, seppur non esente da una certa coerenza di fondo, ha fornito eloquenti dimostrazioni l’ampio ventaglio di stili e di linguaggi esibiti, dal realismo visionario di Mundruczó alla decostruzione narrativa di Blanco, dalla gigantesca struttura scenografica di Kourtakis alle marionettine da scrivania del Teatrino Giullare. Si è ancora una volta messo in luce, a mio avviso, lo scarto sempre più evidente tra chi lavora su materiali originali – il caso di cronaca più o meno pretestuoso di Mundruczó, la falsa autobiografia di Blanco – e chi opera, seppure ad alto livello, su fonti drammaturgiche del passato, il non-io di Beckett, che attraverso vari testi ha ispirato Kourtakis, le macerazioni spirituali, le crisi coniugali di Bergman, messe a nudo dai francesi Olivia Corsini e Serge Nicolaï.
4) Si va ulteriormente e progressivamente accentuando un preoccupante divario fra la trascinante forza innovativa e la capacità di sovvertire tutti i codici della scena che caratterizzano tante realtà straniere e il livello medio del nostro teatro di ricerca, che in questo momento sembra alquanto asfittico. Tolti i nomi ormai storici, Castellucci, Delbono, e in una sfera a sé stante Armando Punzo, sono pochi a reggere il confronto coi Blanco, coi Mundruczó, coi Milo Rau, coi Rimini Protokoll, col Conde de Torrefiel o l’Agrupación Señor Serrano: a parte Latella, che è ormai un regista più europeo che italiano, mi sembra che restino Deflorian-Tagliarini, che restino gli Anagoor, forse Emma Dante, forse i Motus, forse Alessandro Sciarroni, a potersi inserire in questo panorama del grande cambiamento. Manca il sostegno produttivo, manca l’attenzione al ricambio estetico, oltre che generazionale. La fioritura di giovani talenti che si era verificata qualche anno fa fra le pieghe del nostro sistema teatrale è stata soffocata, privata di spazi e di occasioni: molti si sono persi per strada, molti non sono riusciti a sviluppare fino in fondo le proprie potenzialità, almeno a quel livello. Mundruczó fa ribaltare in scena un intero appartamento: qui da noi il Teatro Sotterraneo, per citare il caso del gruppo che ha vinto il premio Ubu nella prestigiosa categoria dello spettacolo dell’anno, quando mai ha avuto i mezzi per dare seguito a quella caratura internazionale, a quella carica inventiva che si era intuita nel Dittico della specie? Ci sarà pure una ragione se lo stesso Castellucci realizza all’estero dei capolavori, e in Italia delle creazioni molto più contenute.
5) Ancora una volta le esperienze più avanzate e innovative sono arrivate da luoghi imprevedibili, da Paesi apparentemente estranei ai grandi circuiti culturali, da Paesi che soffrono di particolari difficoltà economiche o politiche, della cui realtà attuale tutto sommato sappiamo poco o nulla. Come era accaduto per la Polonia di Kantor e di Grotowski, per l’Irlanda di Enda Walsch, di Martin McDonagh, di Conor McPherson, per la Lituania di Nekrosius e di Korsunovas, stavolta le maggiori sorprese provenivano dall’Ungheria di Mundruczó, dall’Uruguay di Blanco e di Calderón, dalla Grecia di Kourtakis. Come ben sapeva Heiner Müller, che viveva e lavorava da un lato all’altro del muro di Berlino, la marginalità, l’oppressione, i disagi sociali stimolano un’energia, una freschezza inventiva che altrove sono spesso soffocati dal benessere e dall’assenza di tensioni e di conflitti.
6) Il festival è stato molto seguito dalla stampa specializzata, un po’ meno, come sempre, dai grandi media. Adesso si pone il solito, inquietante interrogativo che accompagna sempre la fine di qualunque festival: dopo le platee comunque ristrette di “Vie”, chi avrà modo di assistere a questi spettacoli così determinanti per il nostro gusto e la nostra sensibilità teatrale? Cadranno nel vuoto, nel nulla, nel dimenticatoio, come tante altre suggestive proposte viste in questi anni nelle rassegne estive? Resteranno confinate in quel paio di repliche a Modena o a Bologna, o ci saranno dei teatri interessati a riprendere il filo di queste ricognizioni in un’area che certo non può più essere etichettata come meramente avanguardistica. Imitation of life, El bramido de Düsseldorf possono andare con successo in qualunque Stabile, in qualunque Teatro Nazionale, possono essere inseriti in qualunque normale stagione. Sarebbe anzi auspicabile proseguire in quel lavoro, che già alcuni (non tanti) hanno avviato, volto a colmare la divisione tra il pubblico tradizionale e gli appassionati delle nuove frontiere della creazione. Piaccia o non piaccia, il grande teatro che si va imponendo nel mondo oggi è questo, atipico, spiazzante, fuori dai canoni, e non si può non tenerne conto.