Il nuovo lavoro di Babiblonia Teatri, “Calcinculo”, non si limita a confermare un talento ormai ben noto ma è uno dei loro risultati migliori, che conferma una vena esilarante e feroce, aprendo a un’idea di “teatro canzone” degli anni Duemila sulle tracce di Gaber – Renato Palazzi
Da più di dieci anni i Babilonia Teatri osservano e commentano col loro sguardo sferzante le involuzioni e le piccole aberrazioni del nostro costume collettivo. Da più di dieci anni ritraggono il peggio di noi stessi con una cattiveria che il tempo e il naturale trascorrere della vita non sembrano offuscare: il segreto di questa intatta freschezza sta a mio avviso anche nella lucidità e nella forza d’animo con cui sanno imporsi delle svolte, quando occorre, cambiando genere e direzione senza rinunciare al proprio stile di fondo. È soprattutto questa capacità di rinnovarsi nella continuità che ha consentito loro non soltanto di resistere ma di crescere e migliorarsi – anche se forse avrebbero meritato più attenzioni – quando tanti altri gruppi loro coetanei hanno perso la strada.
Calcinculo, il loro ultimo lavoro, che ho visto nello spazio complice e raccolto di Zona K, a Milano, non si limita a confermare un talento ormai ben noto, è uno dei loro risultati migliori, non meno folgorante di quanto lo fosse stato, all’epoca, Made in Italy, lo spettacolo che li aveva rivelati, o Pornobboy o The end, tappe fondamentali del loro percorso. Questa nuova creazione segna indubbiamente un ulteriore passaggio per il rapporto fra parola e musica, per la commistione dei loro testi con le canzoni composte da Lorenzo Scuda degli Oblivion. Ma a colpire non è solo questa prova di versatilità, tutto lo spettacolo appare costruito con misura perfetta, asciutto, incalzante, magnificamente interpretato da Enrico Castellani e da una bravissima Valeria Raimondi, tornata in scena alla grande dopo una lunga pausa famigliare.
Il titolo ha probabilmente una duplice valenza: si riferisce senza dubbio alla spietata forza d’impatto con cui i due prendono di mira e colpiscono puntualmente vizi, vezzi, fobie, manie, patologie, debolezze, intolleranze di una società arrogante e spaventata, preda di futili illusioni e di inquietanti smarrimenti, a cui si accostano non tanto con intenti satirici quanto con una specie di dolente euforia, di rabbioso stupore. Ma si riferisce soprattutto a quella tipica giostra che è l’emblema delle sagre di paese, di quel sinistro luna park in cui idealmente si rispecchia il degrado dell’Italia di oggi, una squallida fiera col suo imbonitore, la sua cantante da balera, le sue misere attrazioni, dove non mancano neppure degli invisibili sbandieratori che dovrebbero lanciare in aria dei vessilli col leone di San Marco, chiaro simbolo leghista, una sfilata di veri cani un po’ frastornati con immancabile gara non si sa se di bellezza o di abilità o di simpatia, un coro di alpini.
Mentre lei, in improbabile tenuta da rock star di quart’ordine – gonnellino di tulle con le ruches, giubbetto jeans e tacchi alti – sfoggia insospettabili doti di cantante intonando con verve travolgente quei (bei) brani fintamente rassicuranti, che inneggiano alla ricerca di una felicità di maniera ma parlano, di fatto, di depressioni e regressioni ideologiche,di isterie e suicidi, lui si presenta al microfono a pronunciare in un tono gelidamente impassibile, con la sua caratteristica dizione ritmata – inconfondibile marchio di fabbrica dei Babilonia – una serie di monologhi dalla scrittura esilarante e feroce: sono quasi dei poemetti in prosa o parzialmente in versi, piccoli squarci visionari che suscitano risate, ma si tratta pur sempre di risate acide, che nascondono un retrogusto di lieve orrore.
È davvero bellissimo, ad esempio, il primo testo che recita, il febbrile sproloquio di un uomo che vive di paure, paura di essere derubato, contaminato, contagiato, minacciato da ogni sorta di insidie quotidiane: una livida radiografia del nostro presente, un catalogo di ossessioni dall’impronta vagamente bernhardiana. Ed è agghiacciante nella sua cinica paradossalità, quell’altro testo sugli estremisti islamici visti come come gli artefici û coi loro attentati, con le loro stragi – di clamorosi eventi spettacolari: da qui la stralunata proposta di metterli alla guida dei teatri, di attribuire loro i finanziamenti ministeriali, di affidare all’Isis l’inaugurazione della Scala, certi che faranno colpo, che non passeranno inosservati, che attueranno una totale partecipazione degli spettatori, coinvolti in riti sanguinari come vittime sacrificali.
Ma l’aspetto ancor più sorprendente di Calcinculo è nel fatto che i Babilonia, non so quanto volutamente, ma con una scelta certo molto efficace, si trovano a incarnare un’idea di “teatro canzone” degli anni Duemila, a riproporre nel loro linguaggio personale un modo di far spettacolo che richiama più o meno direttamente risonanze gaberiane, evidenziate persino da una specie di citazione, nell’accenno alla «rivoluzione nella vasca da bagno». Ma tutta la canzone intitolata “Comunista”, «il mio è un rosso relativo / è un campari nell’aperitivo / un negroni a colazione /
il disincanto è la mia costellazione» è puro Gaber in chiave Babilonia.
Non è solo per via dello schema drammaturgico che alterna gli interventi musicali a quelli meramente verbali, non è solo per l’uso della canzone quale strumento per auscultare il nostro stato di salute nazionale: è proprio il tipo di analisi spigliata e irriverente ma sostanzialmente impietosa della realtà in cui viviamo a rimandare al sarcastico evocatore della Libertà obbligatoria e dei Polli d’allevamento, al suo coraggio dimesso nell’interrogarsi pubblicamente su ciò che siamo e dove andiamo.
Visto a Milano, a Zona K. Tournée
Calcinculo
di e con Enrico Castellani e Valeria Raimondi
e con Luca Scotton
musiche: Lorenzo Scuda
direzione di scena: Luca Scotton
scene: Babilonia Teatri
produzione Babilonia Teatri, La Piccionaia
coproduzione Operaestate Festival Veneto