La tracimante personalità di Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi è un fenomeno per tanti aspetti unico nel panorama della scena italiana di oggi. Che forse costituisce l’unico loro vero limite – Renato Palazzi
Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi sono un fenomeno per tanti aspetti unico nel panorama della scena italiana di oggi. Coppia sul palco e nella vita, lei di Messina, lui di Reggio Calabria, uniti dal destino attraverso lo stretto, i due procedono sulla strada di un teatro miniaturizzato, meravigliosamente ridotto alle proporzioni di un veliero in bottiglia: nei loro spettacoli, particolarissimi, tutto sembra ingegnosamente rimpicciolito, gli arredi, gli oggetti da lavoro, i testi, le idee, le parole, sorprendentemente riportati alla dimensione fisica dei due attori, che hanno estri da artisti collaudati dentro strani corpi ancora da bambini.
Rimpicciolire, sia chiaro, non significa abbassare di livello: anzi, al contrario, la loro espressività compressa imprime un’insolita e spiazzante forza intellettuale alla materia, per lo più impervia, che essi affrontano. Nell’ingannevole mondo-giocattolo in cui si muovono – che di fatto non ha nulla di innocente o infantile – gli argomenti trattati acquistano un’ulteriore, paradossale evidenza. Per questo, credo, i due hanno raccolto i loro precedenti spettacoli sotto la comune etichetta di “trilogia del limite”: il limite non è solo una barriera da superare, è anche un valore in sé, una restrizione che non ingabbia ma accende, valorizza, potenzia.
Questi tratti, nel loro ultimo spettacolo, De revolutionibus – Sulla miseria del genere umano, spiccano fin da prima che l’azione abbia effettivamente inizio, fin da quando si preparano alla rappresentazione spingendo al centro dello spazio due suggestivi carrettini di legno, il cui carico fornirà una serie di improvvisati arredi scenici, e che svuotati e uniti insieme formeranno una lunga pedana. Assemblando gli attrezzi stipati sui carretti, un tavolino, uno sgabello, due pertiche che reggono l’arcata di ingresso a una specie di circo o baraccone da fiera, un tendaggio che farà da sipario ma anche da sottanone alla Minasi, i due completeranno l’accurato rito del montaggio. E su questa precaria ribalta affronteranno nientemeno che due Operette morali di Leopardi.
Questa scelta di una severa materia etico-filosofica non stupirà chi segue abitualmente il lavoro di Carullo e Minasi, perché la ricerca di un alto spessore di pensiero, unita a una certa vena ironica, è l’altra caratteristica saliente della compagnia. Gli spettacoli che compongono la “Trilogia del limite” partivano tutti dai dialoghi di Platone: il primo, quello che li ha fatti conoscere, Due passi sono, accostava elementi autobiografici con brani dal Simposio. Il secondo, Conferenza tragicheffimera “sui concetti ingannevoli dell’arte” intrecciava riflessioni teoriche di Kantor con spunti dello Ione, mentre nel terzo, T/Empio. Critica della ragion giusta si discettava di ciò che è sacro e ciò che è empio, di ciò che è lecito o illecito sulla scorta dell’Eutifrone.
Le due Operette qui utilizzate sono Il Copernico e Galantuomo e mondo, in qualche modo contrapposte per arrivare a dei giudizi antitetici sui destini della specie: nella prima, definita «operetta infelice e per questo morale», il Sole, stufo di girare attorno alla Terra, e ansioso di restare immobile al suo posto, mentre sarà la Terra a ruotargli intorno, illustra all’astronomo le prospettive di un’umanità non più al centro dell’universo, ridimensionata nelle sue ambizioni, ma forse – per i due attori-registi – finalmente in grado di gioire dell’immensità del creato. Nella seconda, «operetta immorale e per questo felice», il Mondo espone a un galantuomo l’inutilità della virtù e dell’ingegno rispetto al mediocre conformismo, all’ipocrisia, alla bieca capacità d’adattamento.
Non sono sicuro che lo sforzo di ricavare indicazioni opposte da questi due testi, all’apparenza entrambi alquanto pessimisti, vada del tutto a buon fine: l’impressione, in particolare, è che la lettura in positivo del Copernico risulti in questo caso un po’ forzata. Ma poco importa: ciò che conta davvero è la sicurezza, la padronanza con cui i due accostano i dialoghetti leopardiani per interrogarsi sul presente. Alternandosi nei ruoli dominanti – Carullo è il Sole e la Minasi Copernico, poi lei è il Mondo e lui il galantuomo – si misurano senza timore con l’elaborata lingua ottocentesca del poeta, proponendola fedelmente così come è nata, con una dizione svelta, incalzante, benché sia arduo imporle quei ritmi beckettiani ormai da loro interiorizzati, cui invece si presta la dialettica di Platone.
Assistendo a De revolutionibus si ha comunque la conferma della tracimante personalità di questa strana coppia, che realmente non ha paragoni o riscontri nel nostro teatro attuale. Si capisce bene, in un certo senso, come i due non abbiano avuto proprio modo di inserirsi in un progetto altrui, ovvero nella messinscena di Dolore sotto chiave di Eduardo da parte dei Teatri Uniti, con la regia di Francesco Saponaro, con cui sono arrivati a una drammatica rottura: è probabile che loro non possano, semplicemente, mettersi in relazione con stili espressivi o metodi di lavoro diversi, ma siano in un certo senso condannati ad andare avanti soltanto per la propria strada, con tutti i pregi e tutte le contraddizioni che ciò comporta. Forse è questo il limite principale col quale devono confrontarsi, la linea di confine davvero difficile da scavalcare.
Visto al Pim Off di Milano. Vedi QUI per le prossime date
De revolutionibus – sulla miseria del genere umano
dalle Operette morali di Giacomo Leopardi
scene e costumi: Cinzia Muscolino
scenotecnica: Piero Botto
disegno luci: Roberto Bonaventura
diretto e interpretato da Cristiana Minasi e Giuseppe Carullo