Dolore sotto chiave

Dolore sotto chiave

Malgrado la genesi travagliata dovuta all’interruzione della collaborazione con il duo Carullo-Minasi, lo spettacolo che unisce due brevi atti unici di Edoardo a 30 anni dalla morte è pienamente riuscitoRenato Palazzi


Penso che ricordare il trentennale della morte di Eduardo con due brevi atti unici poco noti e raramente rappresentati sia stata una buona idea: c’è, in queste aguzze mini-piéce, una sorta di grazia scarna, leggera, l’immediatezza di una trama ridotta all’osso, l’assenza di un più ampio respiro drammaturgico che, in definitiva, giova all’autore, lo sfronda di un certo surplus di sentimentalismo che in altre occasioni appesantisce la sua opera. Riuniti dal regista Francesco Saponaro in un unico spettacolo, Dolore sotto chiave e Pericolosamente evidenziano il risvolto acre della scrittura di Eduardo, pongono in luce la sua capacità di graffiare anche con una sola, fulminea invenzione paradossale.

Il dittico, che all’inizio non era nato come tale – il secondo testo si è aggiunto dopo – ha avuto una genesi travagliata, giacché era stato concepito nella chiave di un incontro fra i Teatri Uniti e un gruppo emergente della scena italiana di oggi, il duo Giuseppe Carullo – Cristiana Minasi, allo scopo di creare un’insolita contaminazione stilistica e generazionale nel segno di Eduardo. Poi il progetto, come molti sanno, non è andato a buon fine, si è incagliato nelle incomprensioni artistiche e nei conflitti di identità, come a volte accade, e Carullo-Minasi ne sono usciti. Il risultato, a giudicare da ciò che in effetti si vede, senza poter immaginare cosa ne sarebbe stato se fosse arrivata a compimento l’intenzione originale, non sembra averne comunque risentito.

Il primo e più corposo dei due testi, realizzato per la radio nel ’58, e poi portato due volte alla ribalta dall’autore, parte da una trovata macabramente provocatoria: un uomo, Rocco Capasso, che è stato a lungo lontano dalla famiglia per lavoro, torna a casa convinto di trovarvi la moglie gravemente inferma, chiusa in una stanza al riparo da rumori e interferenze esterne, mentre la donna è morta poco dopo la sua partenza. L’evento luttuoso gli è stato nascosto dalla sorella Lucia, che per mesi, nelle sue lettere, gli ha mentito per non dargli dolore. Ma Capasso – e qui sta il nucleo velenoso della situazione – in realtà non è affatto addolorato, in tutto quel tempo ha avuto una storia con un’altra donna, da cui aspetta anche un bambino, e sognava solo di liberarsi della legittima consorte.

Questo abbozzo di vicenda, questo concentrato di debolezze umane, per quanto scarno, è ricco di chiare implicazioni pirandelliane – lo scarto fra ciò che appare e ciò che è, le differenze morali fra tradire una viva o una morta, non sapendo tuttavia della sua fine – sottolineate dal prologo, che traduce in versi napoletani una novella dello scrittore siciliano, I pensionati della memoria, sulla vita come illusione, come inganno. Ma il nodo centrale dell’intreccio è il sottofondo amaro di falsità e ipocrisie che esso svela: Rocco deve fingersi disperato perché glielo impongono le convenienze, è la sua mancanza di franchezza a innescare l’equivoco. Anche Lucia, però, col suo mentire a fin di bene ha forse interessi inconfessati, l’impagabile ebbrezza del presunto altruismo, il bisogno di esercitare un potere domestico.

Questa sostanziale ambivalenza, questa oscura duplicità interiore viene messa in risalto dall’attenta regia di Saponaro fin dalla scelta di affidare il ruolo della sorella a un attore di sesso maschile, l’eccellente Luciano Saltarelli: la trovata, determinata dall’urgenza di sostituire la Minasi, trova piena giustificazione nel modo in cui  il personaggio è trasformato in una maschera ambiguamente farsesca, un concentrato di malizie e sottintesi. L’azione, ambientata in uno spazio ai confini della morte, delimitato da due singolari porte-bare, si chiude con un finale ugualmente sospeso: Rocco, ormai libero, potrebbe ancora avvertire la donna amata, che – sfiduciata – sta per partire con un altro uomo. Suona il telefono, forse è lei. Ma lui lo lascia squillare, e non risponde.

Saltarelli appare in abiti femminili anche nel secondo atto unico, Pericolosamente, in cui incarna una moglie bisbetica alla quale il marito spara revolverate – più o meno a salve, anche su questo punto resta qualche dubbio – per renderla mansueta, con comprensibile sgomento di un amico di famiglia venuto per affittare una stanza: ma il metodo, a quanto pare, funziona, tanto da essere adottato da altri inquilini del palazzo, di cui risuonano i colpi ai vari piani. A differenza di Dolore sotto chiave, questo è un puro divertimento, politicamente molto scorretto ma esilarante, e assai efficace nel valorizzare la travolgente vena degli interpreti, che sono – oltre a Saltarelli – l’ottimo Tony Laudadio e Giampiero Schiano, bravissimo anche nel recitare il prologo.

Visto al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano. Repliche fino al 19 ottobre

 

Dolore sotto chiave
due atti unici di Eduardo De Filippo
Dolore sotto chiave e Pericolosamente
con un prologo da I pensionati della memoria di Luigi Pirandello
regia: Francesco Saponaro
scene e costumi: Lino Fiorito
luci: Cesare Accetta

Un commento su “Dolore sotto chiave

  1. Io non ho visto un bello spettacolo. Dolore sotto chiave mi è sembrato confinato dentro un’intenzione non realizzata: piatto, nè pesce nè carne, con aggiunte testuali “appiccicaticce” e assolutamente discutibili (Anna, l’amante, che va via con un altro uomo perché incinta e bisognosa di un nome per il bambino. Molto più struggente e malinconica l’Anna di Eduardo, se ne va, se ne va e basta, per non dover più soffrire di un amore dimezzato). Anche la scelta en travesti, nonostante la bravura di Saltarelli, non trova nessuna giustificazione. Laudadio, di maniera, incapace di commozione. Quanto a ‘pericolosamente’, aggiunto per avere diritto a spettatori paganti, che dire? Come ha dichiarato lo stesso Saltarelli nell’incontro con il pubblico al chiostro Ninchi qualche giorno fa, è una macchina comica così perfetta che chiunque può riuscire bene.
    Il tutto messo insieme con un filo a mala pena rosato, niente più che un pretesto.
    Cordiali saluti.
    Rosa Startari