Tutto Domingo per i suoi cinquant’anni in Arena

Grande festa a Verona per l’amato artista spagnolo, che continua ad ammaliare il pubblico con la forza del suo mito. Davide Annachini

Di nuovo l’Arena di Verona ha fatto parlare di sé per una parentesi tutta dedicata al grande Placido Domingo, festeggiato per i cinquant’ anni dal debutto non solo al festival veronese (Turandot, 1969) ma in Italia tout-court, dove immediatamente (a partire dalla Scala) il tenore spagnolo si sarebbe imposto come uno dei beniamini più amati dal nostro pubblico. Un amore che non ha mai conosciuto appannamenti di sorta, tanto da stupire come riesca tuttora a garantire l’esaurito in un’Arena di quindicimila fedelissimi solo per un Gala, in cui la sua partecipazione risultava circoscritta ad alcune pagine tratte da tre titoli verdiani, Nabucco, Macbeth e Simon Boccanegra.

In sessant’anni di carriera onerosissima molta acqua è passata sotto i ponti e, da un decennio, Domingo ha smesso i panni di tenore per indossare quelli di baritono, confortato da una voce di natura piuttosto sombrée e da una tessitura più comoda, che lo esenta dalle fatiche di un registro acuto mai contraddistinto da particolare estensione. Detto questo non è che Domingo canti diversamente da prima: il timbro è quello di sempre – pastoso, caldo, sensuale – mentre lo stile e la musicalità restano immancabilmente impeccabili. Quindi non si può parlare di trasformismo ma semmai di versatilità, qualità che ha d’ altronde caratterizzato tutta l’attività di questo instancabile artista, da cantante lirico a cantante di musica popolare, da direttore d’orchestra a direttore artistico.
A Verona lo ha riconfermato – alla faccia dei venerabili 78 anni denunciati – con una settimana di fuoco, dirigendo una recita di Aida, cantandone una di Traviata e concludendo in bellezza con il Gala in suo onore. Per Traviata (diretta da Marco Armiliato e nell’ultima messinscena di Zeffirelli) la Fondazione Arena aveva reclutato un cast decisamente superiore alla prima, con la Violetta di Lisette Oropesa – squisita per eleganza del canto, precisione nel virtuosismo, sensibilità espressiva, toccante in particolare nell’ ultimo atto – e l’Alfredo di Vittorio Grigolo – aitante come sempre sia nella voce, tutta uguale quanto a brunitura timbrica ed estensione, sia sulla scena, dove l’interprete è risultato al solito sincero e appassionato, anche se inguaribilmente un po’ guascone. Ma la loro bravura è sembrata eclissarsi d’un colpo all’ingresso del Germont di Domingo, accolto da un fluviale applauso di sortita come poteva avvenire ai tempi della Callas, quindi in epoca di leggenda. E quando questa voce inconfondibile, amica e seducente, ha cominciato ad espandersi nella cavea con un calore e una suadenza irresistibili, l’emozione è stata quella legata a ricordi di anni lontani nella memoria. A parte qualche comprensibile accorciamento dei fiati, Domingo si è riconfermato l’artista di sempre, con una scolpitezza della parola e una tenuta della linea nel cantabile tuttora sorprendenti, ma soprattutto con quella sobrietà e quella classe nel proporsi al pubblico di cui le nuove generazioni dovrebbero fare tesoro, anche al momento dei ringraziamenti, in cui gli sbracciamenti e il prostrarsi al grande Maestro di Grigolo in tutta la loro bontà sono suonati decisamente plateali.

Nel Gala per i 50 anni Domingo ha riproposto i cavalli di battaglia della sua seconda giovinezza, con un dolente Nabucco, un tormentato Macbeth e soprattutto con un Simone (Boccanegra ndr) toccante e profondamente umano, dai momenti talvolta struggenti. Hanno brillato al suo fianco Anna Pirozzi – soprano decisamente verdiano nell’espansione vocale, nell’intenso colore timbrico, nella sicurezza esecutiva, in evidenza soprattutto nel famoso sonnambulismo di Lady Macbeth – e Arturo Chacòn-Cruz – tenore di bella voce e di grande slancio interpretativo, particolarmente in luce nel suo Gabriele Adorno -, insieme a Marko Mimica (buona voce di basso ma per altro repertorio), Géraldine Chauvet (efficace Fenena), Romano Dal Zovo, Carlo Bosi, Lorrie Garcia, Elisabetta Zizzo.

Jordi Bernàcer ha diretto con qualche lentezza di troppo i complessi areniani, nell’arco di una serata che – seppure in odore di un allestimento frettoloso, con qualche ingenuità registica di troppo (di Stefano Trespidi), certo imbarazzo coreografico a firma di Giuseppe Picone (come quello di far danzare la Sinfonia del Nabucco..), un bis del “Va pensiero” non richiesto e fuochi d’artificio finali – ha rappresentato il momento di festa giustamente atteso, nel nome di un artista inossidabile e amatissimo come il grande Placido.