Opera tra le più amate e rappresentate del repertorio belcantistico, Lucia di Lammermoor forse non aveva ancora conosciuto una versione così orientata al versante espressivo rispetto a quello virtuosistico come l’edizione presentata alla Scala di Milano. Grandi protagonisti Oropesa e Florez, sotto la direzione romantica di Chailly e la regia intelligente di Kokkos. (Foto Brescia e Amisano – Teatro alla Scala). Davide Annachini
Prevista originariamente come inaugurazione di stagione e saltata a causa della pandemia, Lucia di Lammermoor è stata giustamente recuperata dal Teatro alla Scala, dove si è rivelata uno dei successi dell’attuale programmazione.
Emblema del melodramma romantico, il capolavoro di Donizetti ha sempre riscosso un affetto particolare da parte del pubblico come allo stesso tempo ha storicamente rappresentato un banco di prova per i grandi cantanti, particolarmente esposti sotto il profilo vocale. Tanto Lucia, con la sua virtuosistica scena della pazzia, quanto Edgardo, con il suo ardore sentimentale, sono personaggi irrinunciabili per gli specialisti del belcanto, che spesso hanno giocato le loro qualità acrobatiche più appariscenti, spostando il baricentro stilistico della loro prestazione su un piano prevalentemente esecutivo. Se l’interpretazione fondamentalmente tragica della Callas a suo tempo rivelò che il personaggio di Lucia offriva molto di più rispetto agli arabeschi vocali dei meccanici soprani di coloratura, oggi è difficile prescindere dal fattore espressivo per valutare una grande protagonista di quest’opera.
L’edizione scaligera ha avuto il merito di anteporre a una versione prettamente belcantistica una lettura intensamente espressiva, per certi aspetti inedita, nel puntare a una restituzione fedele della partitura, senza troppe concessioni a variazioni o abbellimenti a effetto e con la riapertura di diversi incisi abitualmente tagliati, forse ingiustamente. Soprattutto la direzione di Riccardo Chailly ha guardato a creare una tinta, un’atmosfera di grande suggestione e coerenza, lirica e drammatica, ossessiva e allucinata, in modo che la progressiva autodistruzione dei due protagonisti, vittime di un amore impossibile, emergesse come filo conduttore della narrazione. La sua lettura romantica e appassionata, quanto contemplativa e intima, ha trovato perfetta risposta da parte dell’orchestra e del coro, preparato da Alberto Malazzi, e soprattutto grazie a un cast equilibrato e omogeneo nel canto come nelle intenzioni.
Protagonista ideale per questo tipo di operazione, Lisette Oropesa è stata una Lucia in grado di integrare all’impeccabile apparato virtuosistico una restituzione del personaggio difficile da ricordare nel passato e difficile da dimenticare nel futuro, per l’adesione personalissima, senza manierismi o forzature, a un’interpretazione capace di toccare tutti i toni della passione, dell’amore, del dolore, dell’astrazione dalla realtà. Magica è stata la sua scena della pazzia – accompagnata dall’originaria glassharmonica (strumento a bicchieri riempiti d’acqua, che con il tocco delle dita emanano sonorità arcane e cristalline), molto più suggestiva del tradizionale flauto per restituire il clima allucinato e surreale di una mente smarrita – in cui il soprano americano ha condotto il trascolorare emotivo dell’infelice Lucia con un’intensità e una tensione capaci di magnetizzare il pubblico. E a questo punto l’eliminazione della lunga cadenza – atteso appuntamento di bravura pseudostrumentale delle più accreditate virtuose – a favore della concisa conclusione pensata da Donizetti è sembrata la scelta più logica e musicalmente bellissima. Il pubblico lo ha capito e ha tributato alla Oropesa un trionfo di applausi.
Partner ideale di questa Lucia era il grande Juan Diego Florez, Edgardo quanto mai sentimentale e dibattuto, risolto con la superba classe vocale di sempre e con un’attenzione alle sfumature espressive maggiore del solito. C’è da dire che questa parte è risultata un po’ ai limiti delle possibilità del tenore peruviano, soprattutto per la pienezza orchestrale di certi momenti in cui la sua voce faticava ad emergere, ma sicuramente l’abbandono poetico della scena della morte ha riscattato splendidamente certi incidentali pallori della sua prestazione. Da tenere d’occhio il baritono russo Boris Pinkhasovich, un Enrico di bella vocalità, timbrata, omogenea, elegante, accompagnata da una personalità spiccata, e pregevole per accorata umanità il Raimondo di Carlo Lepore, intelligentemente risolto anche sotto il profilo vocale. Validissimi tutti gli altri, l’Arturo elegante di Leonardo Cortellazzi, l’Alisa suggestiva e vibrante di Valentina Pluzhnikova, il Normanno incisivo di Giorgio Misseri.
Lo spettacolo a firma totale di Yannis Kokkos (luci di Vinicio Cheli, video di Eric Duranteau) restituiva un’atmosfera cupa e silvestre, con pochi segni scenografici ed efficaci costumi anni Venti, intervenendo con intelligenza sulla disposizione delle masse in modo da evitare la convenzionale centralità della primadonna e partner, su cui tende a incentrarsi il protagonismo dell’azione e l’attenzione del pubblico. Una regia quindi in sintonia con una rilettura dell’opera in chiave più drammatica che melodrammatica, più psicologica che prettamente belcantistica, tale da garantire a questa produzione un’unità stilistica perfettamente riuscita tra finalità esecutive e teatrali, che al pubblico è piaciuta moltissimo.
Visto il 23 aprile al Teatro alla Scala di Milano