I vespri siciliani a Bologna, tra mafia e belcanto

I vespri siciliani di Verdi approdano anche a Bologna, nella sede defilata del Comunale Nouveau, in un’edizione siglata al femminile, con una pregevole esecuzione musicale affidata alla bacchetta dell’ucraina Oksana Lyniv e con la regia stimolante quanto discutibile di Emma Dante. Davide Annachini

Epoca di Vespri siciliani, verrebbe da dire, visto che dopo la Scala anche il Teatro Comunale di Bologna ha voluto portare in scena una delle opere più monumentali e impegnative di Verdi, tanto più in un momento di forzata trasferta nella sede defilata e tutt’altro che ideale per ospitare una messinscena di grande respiro come quella del Comunale Nouveau, un teatro a metà tra la sala convegni e un cinema, in zona fieristica. A differenza della adiacente sala congressi, dove più di quarant’anni fa il teatro bolognese si era traferito, il Nouveau, con le sue poltrone color pistacchio, una fossa orchestrale a livello platea, un palcoscenico ridotto, può rappresentare una soluzione d’emergenza forse per opere meno ambiziose, visto che, fatta eccezione per un’acustica soddisfacente, gli spazi e l’atmosfera teatrali lasciano a desiderare per allestire titoli impegnativi.

I vespri siciliani più di ogni altro è titolo di grandi ambizioni, visto che nacque nel 1855 come grand-opéra per il pubblico parigino, quindi distribuito sui classici cinque atti e con gli irrinunciabili ballabili, che nel terzo atto si prendono da soli più di quaranta minuti di musica, bellissima e fondamentale per restituire la cifra particolare di questo melodramma. Tagliarli, come ha fatto la Scala e come adesso anche il Comunale, è un po’ snaturare l’opera, che anche sul piano vocale ed esecutivo ha pretese al di fuori del consueto per quanto riguarda Verdi.

Sulla carta la nuova edizione aveva molte frecce al suo arco, anche se poi con la defezione di John Osborn, tenore ideale per una parte ingrata e insidiosa come quella di Arrigo, è venuta a mancare una delle colonne portanti dell’esecuzione, soprattutto perché reperire un sostituto per un ruolo come questo più che una soluzione d’emergenza è un’impresa disperata. Quindi non si può criticare più di tanto la prestazione di Stefano Secco, tenore che ha perso la facilità di un tempo nel registro acuto – qui messo a dura prova – ma che ha conservato la proprietà dello stile e la qualità del fraseggio per poter portare in salvo un impegno da far tremare i polsi. Sicuramente in parte è stata invece Roberta Mantegna, soprano sempre più votata a misurarsi con il Verdi più improbo, che ha affrontato le difficoltà del ruolo di Elena, dall’estensione vertiginosa, dalle pretese belcantistiche, dal singolare taglio drammatico, con la franchezza di una vocalità agile, luminosa, sicurissima in zona acuta e duttile nelle sfumature, anche se in certi passaggi nel registro centro-grave non è risultata di particolare impatto, come anche in certi fraseggi che avrebbero richiesto maggiore incisività per restituire la fierezza patriottica del personaggio. Notevole per ampiezza vocale e rilievo espressivo il Monforte di Franco Vassallo, tuttora baritono di prima qualità anche se un po’ meno incline del solito a piegare la voce a un canto più morbido, e intenso il Procida di Riccardo Zanellato, per la capacità di restituire un’umanità sofferta e fiera a un personaggio solitamente affrontato in maniera monolitica. Funzionali tutti gli interpreti di fianco, Carlotta Vichi (Ninetta), Francesco Pittari (Danieli), Gabriele Sagona (Bethune), Ugo Guagliardo (Vaudemont), Manuel Pierattelli (Tebaldo), Alessio Verna (Roberto), Vasyl Solodkyy (Manfredo).

L’ucraina Oksana Lyniv, direttrice musicale del Teatro Comunale, ha affrontato una partitura così impegnativa e ampia – sfrondata oltre alle danze da pochissimi tagli negli ultimi due atti – con ammirevole padronanza tecnica, nel tenere puntualmente sotto controllo cantanti, orchestra e coro (preparato da Gea Garatti Ansini) con grande aplomb. Forse si sarebbe potuto sperare in una maggiore incisività in qualche momento o in uno slancio più appassionato in altri per poter parlare di un Verdi veramente infiammato, che soprattutto nei concertati raggiunge in quest’opera vertici travolgenti, ma nell’insieme la sua prestazione è risultata di livello e la concertazione dell’insieme encomiabile.

Declinata tutta al femminile, la gestione di questi Vespri (una coproduzione con i teatri di Palermo, Napoli e Madrid) ha visto lo spettacolo affidato a Emma Dante, regista di rilievo quanto spesso discussa nel suo modo di affrontare l’opera lirica. E anche in questa occasione la sua lettura non ha convinto, vuoi per la scelta di identificare l’oppressore della Sicilia nella mafia – di per sé intrigante ma alla lunga incapace di far tornare i conti con l’evolversi della storia – vuoi per la necessità di intervenire troppo spesso sulla musica, in maniera prevaricante e talvolta inopportuna, con un horror vacui per lo più fine a se stesso. Se da un lato le processioni dei gonfaloni con i volti delle vittime di Cosa nostra – da Falcone a Borsellino, di cui Elena veniva a identificarsi nella sorella – dopo un po’ risultavano incongrue rispetto ai capimafia lasciati a piede libero e riconoscibili da orrende tute acetate, d’altro lato la frenesia nel sovrapporsi persino a un momento d’intimismo come un’aria (e i Vespri ne contano di bellissime) con un’inarrestabile sequela di menadi danzanti, traslocatori di statue, madonne tarantolate, prima ancora di debordante si rivelava insensibile alla priorità della musica, che in un’opera non può ridursi a colonna sonora di una regia, tanto più nel caso di un autore come Verdi. E certamente gli elementi scenografici di Carmine Maringola (ispirati alle statue della fontana di Piazza Pretoria a Palermo), i costumi talvolta pacchiani di Vanessa Sannino, le luci di Cristian Zucaro non hanno potuto riscattare l’immagine di uno spettacolo caotico, sovraccarico e da rivedere per le future trasferte.

Applaudita con convinzione l’esecuzione musicale.

 

Visto il 21 aprile al Comunale Nouveau di Bologna