Il Teatro Comunale di Bologna ha colto nel segno con una fortunata produzione della Luisa Miller di Verdi, opera di non facile realizzazione per l’esigenza di un cast di livello e di spessore interpretativo – di Davide Annachini
Il Teatro Comunale di Bologna ha colto nel segno con una fortunata produzione della Luisa Miller di Verdi, opera di non facile realizzazione per l’esigenza di un cast di livello e di spessore interpretativo, data la particolare fisionomia di un lavoro pronto a trascolorare in poche battute dal lirismo al dramma, alla tragedia. Inserita tra le opere giovanili dei cosiddetti “anni di galera” e i capolavori della Trilogia popolare, Luisa Miller si segnala come un prodotto di assoluto interesse, in cui nel 1849 Verdi sposta l’obiettivo dai grandi soggetti patriottici a quelli privati, vuoi familiari vuoi politici, ispirandosi allo Schiller di Kabale und Liebe ma approfondendo soprattutto tematiche a lui care, come il rapporto paterno, che troverà pieno sviluppo in Rigoletto, o come alcune cellule musicali, che riemergeranno in Traviata e in Trovatore. Opera di contrasti, sia nel rapporto d’amore osteggiato innanzi tutto dalle disparità sociali dei due protagonisti sia nelle due opposte relazioni padre-figlio (l’una tenerissima, l’altra estremamente combattuta), Luisa Miller richiede quantomeno un quartetto di fuoriclasse, in grado di sostenere vocalità, oltre che ardue, accesissime.
La parte di Luisa – un po’ come sarà per Violetta in Traviata – esordisce ad esempio con un canto virtuosistico per poi spingersi a impennate decisamente drammatiche, che impegnano la voce in tutta la sua estensione e flessibilità, richiedendo un soprano non solo duttile vocalmente ma anche in grado di esprimere il progressivo dramma psicologico della protagonista. A Bologna Myrtò Papatanasiu, seppur con una vocalità un po’ vuota nei centri ma sicurissima sull’acuto, ha saputo delineare un personaggio convincente, vuoi per la capacità di toccare le corde più struggenti grazie a una grande sensibilità nelle mezzevoci, in cui il timbro acquistava una dolcezza suggestiva, vuoi per lo slancio vibrante nei momenti di maggior tensione, in cui l’interprete e la cantante hanno dimostrato di farsi valere. Questa edizione si incentrava però sul ritorno al Comunale di un tenore fenomeno come Gregory Kunde, che a un’età più che rispettabile è stato una volta ancora interprete verdiano di incredibile freschezza, per il timbro tuttora luminoso, lo squillo e la franchezza dell’acuto, il fraseggio chiaro e incisivo. Il suo Rodolfo ha entusiasmato per la generosità del canto con cui veniva ad esprimersi la passionalità del personaggio, così variegato tra abbandoni sentimentali e fremiti di ribellione, ma anche per la sincerità e la comunicativa dell’artista, che è stato accolto con ovazioni interminabili dal pubblico bolognese. Non da meno è stato il Miller di Franco Vassallo, baritono di vocalità così densa, luminosa e svettante da ricordare i grandi di un tempo, ma al tempo stesso interprete sensibile per la capacità di modulare la sua ampia voce in sfumature di efficace patetismo. Anche per lui si è trattato di un successo personale, condiviso con il resto della compagnia, in cui si sono segnalati l’ottimo Conte di Walter di Marko Mimica, basso di grande correttezza vocale anche se la sua aria da bravo ragazzo risultava al limite del plausibile in un ruolo di cattivo a senso unico, e a seguire l’affascinante Federica di Martina Belli, il viscido Wurm di Gabriele Sagona, la delicata Laura di Vita Pilipenko, il contadino di Haruo Kawakami.
L’esecuzione aveva dalla sua anche la garanzia di un direttore teatralissimo come Daniel Oren, interprete come sempre appassionato e attento nel tratteggiare un dramma dalle tinte fosche e disperate, oltre che sensibile nell’assicurare il giusto respiro al canto. L’orchestra del Teatro Comunale gli ha risposto al meglio e bravissimo è stato anche il coro preparato da Gea Garatti Ansini.
Lo spettacolo portava la firma in toto di marionanni, artefice di un allestimento giocato su atmosfere surreali e intimiste, in cui le scene ridotte all’osso e i costumi liberi da vincoli stilistici partecipavano a una regia fortemente incentrata sulle luci, con effetti per lo più intriganti ed evocativi. E, anche se i cantanti non sembravano sempre mossi da una mano consapevole quanto più che altro lasciati all’iniziativa personale, lo spettacolo ha evidenziato una sua cifra personale e alla fine convincente, che ha contribuito al successo calorosissimo di un’edizione sorprendentemente felice.
Visto al Teatro Comunale di Bologna il 5 giugno