La rarissima Zoraida di Granata ha rivelato al festival di Bergamo un giovane Donizetti di particolare interesse, per quanto ancora in piena formazione stilistica. Su tutti ha brillato Cecilia Molinari, protagonista en travesti di soggiogante bravura e intensità. Davide Annachini
Dopo la fortunatissima inaugurazione con il Roberto Devereux, il Donizetti Opera di Bergamo ha concluso l’edizione 2024 con l’autentica rarità in cartellone, Zoraida di Granata, melodramma “eroico” di un Gaetano non ancora venticinquenne, in attività solo da quattro anni e soprattutto alla ricerca di uno stile personale, che all’epoca non poteva non guardare al modello rossiniano. Per questo debutto sulla piazza romana il destino doveva però già dare del filo da torcere al non sempre fortunato Donizetti, costretto, dopo aver approntato una partitura ambiziosa e di ampio respiro, a doverla rimaneggiare all’ultimo per l’improvvisa morte di uno dei protagonisti – il tenore Amerigo Sbigoli, che per emulare il famoso collega Domenico Donzelli si era provocato lo scoppio di una vena del collo per lo sforzo –, trasportando la sua parte addirittura alla corda di mezzosoprano. Ma, nonostante il successo di questa prima edizione riveduta e corretta del 1822, Donizetti si trovò a modificarla radicalmente solo due anni dopo – sempre per il Teatro Argentina di Roma – per un terzetto vocale ancora più prestigioso, che oltre allo stesso Donzelli vedeva come protagonista il leggendario contralto Rosmunda Pisaroni. E’ a questa definitiva versione del 1824 che ha fatto riferimento l’edizione bergamasca (coprodotta con il Wexford Festival Opera, che invece ne ha presentato la versione originale del ’22), riportando in luce se non esattamente un capolavoro quantomeno una tessera illuminante del giovane e prolifico musicista bergamasco, nella prima Zoraida ancora suggestionato dalla classicità del suo maestro, Simone Mayr, o di un operista di spicco come Ferdinando Paër ma nella seconda più decisamente occhieggiante l’insuperabile Rossini, anche nella scelta del contralto en travesti o del triangolo amoroso quale asse portante del soggetto, affidato a un librettista dai trascorsi rossiniani come Jacopo Ferretti.
All’ascolto, al di là di certa convenzionalità e maniera stilistica, l’impronta di un musicista emergente che già sa il fatto suo c’è tutta, anche se certe lungaggini nei recitativi – ancora ambiguamente altalenanti tra secchi e accompagnati – e certa fragilità drammaturgica, dai colpi di scena così repentini e inverosimili da guardare più al passato che al futuro, limitano l’appeal di un’opera da apprezzare più che nella compattezza dell’insieme soprattutto in certe singole pagine o in isolate premonizioni di capolavori della maturità, come il motivo del banchetto della Borgia, in cui più degli Abenceraghi sembra evocato Maffio Orsini con tanto di coppa.
Scritta per tre fuoriclasse come la Pisaroni, la Boccabadati e Donzelli, l’opera vive principalmente sugli esecutori, qui rappresentati da tre validi giovani dai meriti distinti. Sicuramente su tutti si è imposta Cecilia Molinari, mezzosoprano dalla vocalità forse non particolarmente ampia né estesa ma usata così intelligentemente, con musicalità e virtuosismo impeccabili, insieme a una presa del ruolo vissuta così intensamente da restituire al personaggio di Abenamet tutta la passionalità e l’infelicità dell’eroe già protoromantico più che di stampo belcantistico. E, anche se la caratura vocale può avvicinarsi più a quella di Cherubino che di Arsace, il suo travesti è stato talmente totalizzante da farci perdere di vista la natura stessa della cantante a favore di quella di un’interprete di straordinario magnetismo, con pochi confronti al momento tra le giovani leve. La Zoraida del soprano Zuzana Markovà è apparsa al confronto forse ancora più controllata di quanto realmente fosse, per quanto nobile nel tratto e musicalissima nell’esecuzione, dove a certe finezze coloristiche e alla facilità degli acuti si sono alternate alcune fissità di uno strumento ancora acerbo ma dai possibili sviluppi quanto a omogeneità d’emissione e ampiezza vocale. Nella parte di Almuzir – terzo incomodo tra i due innamorati, cattivo e alla fine magnanimo – scritta per un baritenore come Donzelli, Konu Kim ha mostrato invece una voce schiettamente tenorile, con acuti sonori e slancio eroico degni di un Manrico, facendosi valere comunque per la presenza vocale e per la franchezza dell’interpretazione, mentre nel ruolo del perfido Alì Valerio Morelli ha rivelato una vocalità di basso tutta timbrata nell’estensione, di colore suggestivo e aristocratico, precisa nelle agilità, in cui – se il modello avvertibile era quello di Ramey – l’ispirazione ha dato buoni frutti. Bravi anche Tuty Hernàndez (Almanzor) e Lilla Takàcs (Ines), come Morelli allievi della Bottega Donizetti.
L’esecuzione era affidata alla bacchetta di Alberto Zanardi, direttore misurato anche se non troppo fantasioso nel reggere un’opera così lunga e non sempre coinvolgente, che ogni tanto avrebbe avuto bisogno di scelte più risolutive e teatralmente incisive, condizionate forse anche dalla contenuta duttilità di un’orchestra di strumenti d’epoca come Gli Originali, di delicata espansione sonora, timbrica pallida e rischiosa intonazione, alla quale si affiancava l’efficace Coro dell’Accademia Teatro alla Scala, preparato da Salvo Sgrò.
Lo spettacolo di Bruno Ravella (scene e costumi di Gary McCann, luci di Daniele Naldi) trasportava la Granada musulmana di fine Quattrocento in una Sarajevo di cinquecento anni dopo, devastata dai bombardamenti della guerra in Bosnia-Erzegovina e immersa in una desolante cupezza di morte, da cui emergeva lo scheletro dei ruderi della Biblioteca Nazionale – dai tipici archi moreschi – quale simbolo di una civiltà perduta. Al di là del saliscendi di una colonna e di una vetrata, non è che succedesse però molto altro in scena a beneficio di una drammaturgia di per sé già tanto banale, ma quantomeno l’ascolto di una musica così rara non ha trovato distrazioni visive come di norma in tanti altri casi, a Bergamo e altrove.
Buono il successo di pubblico alla recita di chiusura del festival, che ha visto quest’anno presenze e successi da record.
Visto al Teatro Sociale di Bergamo il 1 dicembre