La Forza vincente del Teatro alla Scala

Apertura felicissima di stagione del Teatro alla Scala con una Forza del destino destinata a figurare tra le migliori produzioni degli ultimi anni, con Anna Netrebko ancora una volta grande protagonista. Davide Annachini

A dispetto della fama negativa che la perseguita, La forza del destino è stata sicuramente un’inaugurazione del Teatro alla Scala di Milano tra le più fortunate degli ultimi anni: cast azzeccatissimo, direzione e regia in piena sintonia nel restituire tutta la forza drammatica e drammaturgica dell’imponente opera verdiana. Il successo è stato corale e gli assurdi dissensi rivolti alla prima alle due interpreti russe presentavano scopertamente risvolti politici e di certo non artistici.

Si è trattata di una Forza decisamente siglata dalla direzione di Riccardo Chailly, qui al meglio delle sue qualità tecniche ed espressive, all’interno di una lettura dal forte taglio teatrale, vibrante, incisiva e duttile nel passare dai toni lirici a quelli brillanti, a quelli tragici, con uno smagliante supporto dell’orchestra e del coro scaligeri, quest’ultimo preparato da Alberto Malazzi. Ma soprattutto è stata un’esecuzione di sicuro impatto emozionale, nel restituire, oltre alla tensione narrativa di un’opera che fa del destino il suo filo conduttore. tutta l’umanità, disperata ed eroica quanto spietata o addirittura comica, dei diversi personaggi, già perfettamente sbalzati a partire dallo stesso commento strumentale.

Di sicuro la Scala ha convocato una compagnia di canto che – per quanto privata della presenza di Jonas Kaufmann, dolorosa seppur prevedibile, viste le ultime faticose performance del grande tenore – schierava quanto di meglio si potesse trovare per un’opera così impegnativa. Giunta alla sua ennesima inaugurazione scaligera, Anna Netrebko è stata ancora una volta protagonista di razza, non solo per la vocalità pastosa, vellutata e soffice in quei pianissimi che riempivano la sala del Piermarini (sublime “La Vergine degli Angeli”), ma soprattutto per la generosità di un canto che sembrava non conoscere né limiti né paure, anche a scapito di qualche affondo troppo pompato in basso o di qualche acuto spinto alla massima vibrazione. E, come interprete, la sua Leonora passionale e dolente ha potuto contare anche su una presenza scenica affascinante, sia nelle vesti maschili di perseguitata in fuga sia in quelle monacali di eremita dalla sensualità invano repressa. Dopo le prime recite affrontate dal tenore statunitense Brian Jagde, scappato a casa per la nascita di un bebè, Luciano Ganci è subentrato come Alvaro, dimostrando – nonostante una leggera indisposizione – di essere con tutta probabilità il tenore italiano più affidabile del momento per questo repertorio, dalla voce di schietta compattezza e slancio, ampia, squillante e – mai come in quest’occasione – duttile nelle sfumature, con cui ha sostenuto una parte sfiancante con perfetta tenuta vocale e bellissime intenzioni espressive, capaci di sopperire a certa staticità scenica. Grande mattatore è stato Ludovic Tézier, baritono senza confronti sia per nobiltà di emissione – sempre timbrata ed elegante – sia per statura interpretativa, con cui ha tratteggiato un Don Carlo dapprima diffidente e dominante nei confronti della sorella, quindi suo inesorabile persecutore e carnefice, in un’ottica psicologicamente quanto mai attuale di radicato femminicida e di spietato difensore dell’onore familiare. Smagliante Preziosilla per vivezza scenica (una Marianna rivoluzionaria alla Delacroix invece della solita vivandiera di facili costumi), Vasilisa Berzhanskaya ha gestito una parte di ambigua estensione con la sua vocalità a metà tra il mezzo e il soprano, dagli acuti sicurissimi e con tanto di trilli nel “Rataplan”, elevando il ruolo pittoresco a personaggio drammatico – vittima alla fine della guerra da lei tanto invocata – con slancio vibrantissimo, a dispetto di una vocalità forse più idonea a fronteggiare i cimenti belcantistici che verdiani. Di autorevole rispondenza vocale, solenne e intensa, è stato il Padre Guardiano di Alexander Vinogradov, capace di esprimere del personaggio un’umanità commossa rispetto al cliché austero di tradizione, in contrasto con l’impagabile Melitone di Marco Filippo Romano, buffo di gusto moderno, mai caricato nella caratterizzazione, sottilmente incisivo nella parola, sempre attento a un canto privo di sbavature. Ottime le parti di fianco, a cominciare dal Trabuco di Carlo Bosi, tuttora il nostro miglior specialista in campo, per arrivare al Calatrava di Fabrizio Beggi, alla Curra di Marcela Rahal, all’Alcade di Huanhong Li, al Chirurgo di Xhieldo Hyseni.

Lo spettacolo di Leo Muscato (scene di Federica Parolini, costumi di Silvia Aymonino, luci di Alessandro Verazzi, coreografie di Michela Lucenti) viveva su un allestimento girevole, ideale per risolvere ottimamente i frequenti cambi di scena ma soprattutto per simboleggiare l’azione circolare del destino, espresso non solo dal precipitare degli eventi sino al tragico finale ma anche dal progressivo passare dal Settecento ai giorni nostri all’insegna della guerra, cifra costante di ogni epoca. Un’idea che si è rivelata vincente nella sua funzionalità scenico-interpretativa, calibrata perfettamente nelle tinte polverose delle scene e dei costumi quanto nell’intimismo delle luci e in piena sintonia con la musica verdiana, di cui ha felicemente esaltato la forza teatrale e il rilievo dei personaggi, vittime di un destino più grande di loro e votato all’eterna infelicità.

Scontato a questo punto – ma non tanto per uno spettacolo d’apertura alla Scala – il successo trionfale per tutti.

 

Visto al Teatro alla Scala di Milano il 22 dicembre

(foto Brescia e Amisano © Teatro alla Scala)

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