Felicissimo debutto scaligero per il giovane direttore inglese in Das Rheingold, prima giornata della Tetralogia wagneriana messa in scena, con qualche delusione, dal regista David McVicar. Davide Annachini
Das Rheingold ha concluso la stagione 2023/24 del Teatro alla Scala e al tempo stesso ha inaugurato l’intero ciclo del Ring wagneriano programmato per i prossimi anni dal teatro milanese. Un’operazione come sempre di grande responsabilità esecutiva, quella della Tetralogia, che alla Scala era originariamente focalizzata sulla presenza di uno dei massimi direttori del momento, Christian Thielemann, rinunciatario all’ultimo per motivi di salute ma non intenzionato a proseguire l’impegno solo per le tre opere successive, proprio per il fatto di mancare a quella iniziale del Prologo. La Scala ha prontamente risolto il problema convocando addirittura due maestri, Simone Young – nota interprete wagneriana, di recente titolare proprio del Ring a Bayreuth – e Alexander Soddy, giovane direttore inglese in luminosa ascesa, che della Young è stato assistente, imponendosi in breve come interprete quanto mai versatile, tant’è che solo in Italia lo si potrà ritrovare per il prossimo anno in Mozart (Nozze di Figaro, ancora alla Scala), Strauss (Salome, a inaugurazione del Maggio Musicale Fiorentino), Verdi (Macbeth, sempre a Firenze).
Di sicuro in questo Oro del Reno la sua presenza si è fatta notare, guadagnandosi l’autentico motivo di interesse della nuova produzione wagneriana, che a quanto pare lo vedrà impegnato con la Young nel prosieguo delle altre giornate dell’Anello del Nibelungo. Il Wagner proposto da Soddy si è tenuto lontano dai modelli teutonici più solenni e monumentali come anche da quelli estremamente liricizzati, puntando a creare un flusso quasi naturale, si potrebbe dire discorsivo, di commento orchestrale ai lunghi dialoghi tra i personaggi e di grande attenzione alle voci, che non hanno mai rischiato di rimanere coperte dal suono della buca. Nei momenti di passaggio da una scena all’altra, puramente strumentali, Soddy ha dato invece massimo risalto all’orchestra, con effetti coloristici affascinanti e con uno sfoggio smagliante delle sonorità, in cui l’orchestra scaligera ha dato il meglio di sé. L’impatto è stato quindi quello di un Wagner meno sovrannaturale o epicheggiante, meno concentrato sull’enfasi dei momenti clou e quanto mai incline al contrario a una sensibilità più narrativa, spontanea, teatrale, che ha trovato nella compagnia di canto una risposta se non proprio epidermica quanto meno solidamente professionale.
Nel cast si sono segnalati in particolare Michael Volle, un Wotan adeguatamente imponente e austero nel canto, anche se un po’ in superficie nell’interpretazione, Olafur Sigurdarson, un Alberich di notevole nitidezza timbrica e incisività scenica, Andrè Schuen, ottimo Donner per vocalità e presenza, Jongmin Park, Fasolt di grande impatto nel canto, Christa Mayer, Erda di suggestiva forza espressiva, insieme alle ottime Figlie del Reno di Andrea Carroll, Svetlina Stoyanova, Virginie Verrez. A un livello leggermente arretrato, per quanto funzionale, sono apparsi il Loge di Norbert Ernst, efficace ma non sempre irreprensibile nell’emissione, la Fricka più voluminosa che affascinante nel canto di Okka von der Damerau, la valida Freia di Olga Bezsmertna, come anche il Mime di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke, il ruvido Fafner di Ain Anger, il discreto Froh di Siyabonga Maqungo.
Lo spettacolo portava la firma di David McVicar, regista scozzese dalla cifra elegante, intelligente, concentrata sulla recitazione, legata a un’ottica solitamente di tradizione, che in molti casi – soprattutto al Covent Garden di Londra – ha siglato messinscene di qualità. A confronto con il Wagner fantastico del Ring, McVicar è forse risultato fin troppo di tradizione, nel riportare il mondo sovrannaturale degli eroi del Walhalla alla convenzionalità di un déjà-vu, in cui nulla appariva stonato ma nemmeno illuminante, soprattutto in un genere teatrale come questo che pretenderebbe una stilizzazione antirealistica e una trasposizione senza spazio né tempo definiti. Quindi, al di là dell’indubbia professionalità del team registico (scene di Hannah Postlethwaite e dello stesso McVicar, costumi di Emma Kingsbury, luci di David Finn, proiezioni di Katy Tucker, coreografia di Gareth Mole, arti marziali di David Greeves) e della suggestione di alcune soluzioni sceniche, rarissimi sono stati i momenti convincenti all’interno di una regia fin troppo esplicitata nella recitazione, non sempre riuscita negli effetti di particolare magia teatrale e discutibile nei tentativi di originalità della messinscena, come nel caso degli ingombranti sottanoni fatti indossare ai personaggi maschili, in un’ottica da teatro elisabettiano non meglio giustificata.
Ottimo il successo di pubblico per la componente musicale, con un punte di sincero entusiasmo per Soddy all’ultima recita in cartellone.
Visto al Teatro alla Scala di Milano il 10 novembre