Il Verdi scabroso di Stiffelio conquista per la prima volta Verona

Rimasto a lungo nell’oblio a causa del soggetto per l’epoca scabroso, lo Stiffelio di Verdi si è rivelato in tempi recenti opera intrigante e modernissima, come ha riconfermato il grande successo in occasione della sua prima rappresentazione veronese. Davide Annachini

Compresso tra un’opera di svolta come Luisa Miller e la famosa Trilogia popolare (Rigoletto, Trovatore, Traviata), determinanti nella carriera di Giuseppe Verdi per lasciare alle spalle i giovanili “anni di galera” a favore di quelli della piena maturità, Stiffelio ha storicamente sofferto di un oblio che solo in anni recenti ha conosciuto la giusta riabilitazione, com’è stato ora per la Fondazione Arena di Verona, che l’ha proposto sulle scene del Teatro Filarmonico per la prima volta in epoca moderna.

In realtà Stiffelio si distingue per la coraggiosa modernità del soggetto, che individua un chiaro cambiamento di rotta dai temi risorgimentali a quelli personali e intimi, tipici dei futuri capolavori verdiani. Un soggetto di sicuro scabroso per il fatto di trattare tematiche scomode o del tutto proibite per l’epoca, come il matrimonio di un sacerdote (per quanto protestante), il tradimento della moglie, il suo perdono finale e ancor prima la scelta addirittura di un divorzio. Per le tematiche inaudite nell’Italia del 1850, dove non avrebbe avuto scampo dalla censura in nessun teatro della penisola, Stiffelio trovò asilo in una piazza defilata come Trieste, che – seppur con qualche pesante correzione – lo accolse con discreto successo. Il taglio serratissimo, i cambi di azione repentini, l’accesa drammaticità se da un lato penalizzarono in parte la definizione psicologica dei personaggi – soprattutto nel caso dello stesso Stiffelio, protagonista senza troppe sfumature nel suo inflessibile rigore moralistico – dall’altro la bruciante teatralità e la forza espressiva delle interrelazioni, culminanti nell’incredibile duetto della confessione tra l’intransigente pastore e la moglie adultera, dovettero risultare addirittura inconcepibili per la mentalità dell’epoca. Non stupisce quindi che l’opera avesse conosciuto già nell’Ottocento scarsissima circuitazione, tanto da obbligare lo stesso Verdi a trasportarla in un finto Medioevo per il rifacimento di sette anni dopo, sotto il nome di Aroldo.

A Verona l’opera ha potuto contare su un’edizione in grado di valorizzarne la potenzialità teatrale e musicale che la rendono così atipica e moderna per l’epoca, con grande coinvolgimento e successo di pubblico. Un giovane direttore come Leonardo Sini ha riconfermato le qualità già apprezzate quest’estate in Arena nella Carmen, come l’autorevolezza nella conduzione dell’orchestra e dell’insieme vocale con piglio deciso, braccio leggero, chiarezza di idee, felicità narrativa, qualità determinanti nell’offrire del melodramma verdiano una lettura vibrante, tesissima, incalzante e drammaturgicamente efficacissima. Lo hanno assecondato con grande partecipazione esecutiva l’Orchestra e il Coro della Fondazione Arena, quest’ultimo preparato al meglio da Roberto Gabbiani.

In scena ha dominato Luciano Ganci, già Stiffelio nella famosa edizione firmata nel 2017 da Graham Vick a Parma ma qui ancora più maturo nell’espressione e soprattutto nel canto, di un’ampiezza vocale, intensità timbrica e squillo davvero fuori dal comune, tanto più in una parte dalla scrittura declamatoria e dalla tensione drammatica già anticipatrici di Otello. Nell’insidiosa parte di Lina, Caterina Marchesini ha risolto con finezza i passaggi più ardui e scoperti, restituendo anche il patetismo lacerato e fiero della donna adultera con apprezzabile sensibilità, se non proprio con l’ampiezza vocale adeguata al ruolo. A questa coppia si è alternata quella di Stefano Secco e Daniela Schillaci,  l’uno Stiffelio credibile per nitidezza di fraseggio e tenuta vocale, anche se non esente da un certo sforzo nella fascia medio-acuta, l’altra Lina un po’ acidula nel timbro ma di vibrante penetrazione vocale e dal temperamento incisivo. Di grande impatto è stato lo Stankar di Vladimir Stoyanov, per l’attenzione alle mezzevoci nel canto accorato dell’aria come per lo slancio vibrante della cabaletta, oltre che per la fierezza con cui ha delineato il padre vendicatore dell’onore della figlia. Buoni gli interpreti minori, Carlo Raffaelli (Raffaele), Gabriele Sagona (Jorg), Francesco Pittari (Federico), Sara Rossini (Dorotea).

Lo spettacolo a firma di Guy Montavon, per regia e luci, e di Francesco Calcagnini, per scene e costumi, (una coproduzione del Teatro Regio di Parma e dell’Opéra di Montecarlo) si è segnalato per la sobrietà dell’allestimento, intonato a restituire la severità del soggetto con un sapiente gioco luministico, e per la definizione dei personaggi, colti all’occorrenza nella loro complessità psicologica con felice stilizzazione e asciuttezza scenica.

Calorosissimo, come già detto, il riscontro del pubblico veronese.

Visto al Teatro Filarmonico di Verona il 27 ottobre e 3 novembre.