Figlia del reggimento e della Scala

Alla Scala di Milano una fortunata edizione de La Fille du régiment di Donizetti ha siglato il finale di stagione, con protagonisti ineffabili Juan Diego Florez e Julie Fuchs. Davide Annachini

Prossimo a chiudere la stagione 2024-25, il Teatro alla Scala di Milano ha puntato sul sicuro con la proposta de La Fille du régiment, capolavoro comico dell’ultimo Donizetti, schierando i migliori protagonisti per un’edizione vincente e godibilissima, accolta giustamente dal pubblico con grande calore.

Riabilitata negli anni Sessanta, grazie a virtuose come la Sutherland o a interpreti di squisita sensibilità come la Freni, che ne avevano riscattato l’immagine di opera minore ad uso esclusivo della primadonna di turno (vedi l’arbitraria Lily Pons al Metropolitan di New York ma anche l’autarchica Toti Dal Monte, unica interprete scaligera tra le due guerre), fu soprattutto al nome del giovane Pavarotti che la Fille legò il suo lancio, in virtù di quei nove do di petto che al pari di una raffica pirotecnica avevano scatenato l’interesse per una partitura che di gemme ne aveva ben altre e tutte di purissima qualità. L’equilibrio tra brillantezza scanzonata e lirismo intimista costituisce la cifra di un’opera raffinatissima, che se allo stile francese strizza l’occhio d’altro lato resta sorella dell’Elisir e del Don Pasquale per quella comicità amabile e solare, quanto sensibile e malinconica nei risvolti psicologici, tipica del Donizetti più ispirato.

Il successo che continua a riscuotere tuttora è dovuto quindi al fatto di essere un banco di prova per grandi specialisti del belcanto – come è stato per i Kraus, i Florez o le Anderson, le Devia, le Dessay – e per interpreti scatenati sulla scena, ma sempre con misura, in grado di tenere il ritmo di una commedia irresistibile, altalenante tra il pittoresco, il grottesco, il sentimentale.

Grande fuoriclasse dell’edizione scaligera è stato ancora una volta Juan Diego Florez, un Tonio impareggiabile per nitidezza vocale, sicurezza del registro acuto, suadenza del canto, che se timbricamente ha acquisito la tinta leggermente fané del tempo d’altro lato ha accentuato la corda intimista e poetica con grandissimo effetto espressivo. Tant’è che se i famosi nove do di “Pour mon âme” sono arrivati al pubblico come proiettili, scatenando un finimondo di applausi, nel lirismo di “Pour me rapprocher de Marie” si è potuta provare tutta l’emozione per quel canto legato e quelle morbidezze incantevoli che fanno di Florez un autentico tenore da leggenda. Senza contare come sulla scena l’interprete abbia conservato ancora la freschezza di un fanciullo, sempre spontaneo, dinamico e accattivante, che in questa edizione ha fatto coppia con la Marie canaille quanto raffinata di Julie Fuchs, una vivandiera che sotto la pittoresca crosta da caserma riservava la tenerezza della ragazza ingenua e innamorata. Voce dal colore lirico nei centri e più vaporoso negli acuti, quella del soprano francese si è rivelata adattissima al ruolo, per la capacità di servire i momenti intimi – sicuramente i più suggestivi – quanto quelli brillanti, dove, anche senza vantare i fuochi d’artificio di altre cantanti, ha convinto per la musicalità e l’eleganza delle colorature. Di carattere ma anche coquette, la sua Marie ha trovato sponda tra Florez e Pietro Spagnoli, un Sulpice impeccabile per dizione, fraseggio e comicità, misurata nell’espressione quanto sostenuta sempre da un canto senza sbavature. Géraldine Chauvet è stata una Marchesa efficace, non caricaturale ma nemmeno spiritosa, mentre la riapparizione sulle scene scaligere di Barbara Frittoli nelle vesti dell’odiosa Krakenthorp ha costituito un cameo di classe, recitato con presenza aristocratica quanto autoironica. Completavano il cast l’Hortensius ben caratterizzato di Pierre Doyen e, a seguire, Emidio Guidotti, Federico Vazzola, Aldo Sartori nei ruoli minori, sotto la direzione di Evelino Pidò, un po’ lenta a carburare all’inizio ma poi in grado di rientrare nei parametri di una lettura garbata, equilibrata e di valido supporto alle voci, grazie anche al contributo dell’orchestra e del coro scaligeri, quest’ultimo preparato da Alberto Malazzi.

Spettacolo collaudatissimo quello a firma di Laurent Pelly, per la prima volta alla Scala (nella ricostruzione del Liceu di Barcellona) mentre in contemporanea andava in scena anche al Met di New York, teatro che l’aveva coprodotto una ventina d’anni fa insieme al Covent Garden di Londra e alla Staatsoper di Vienna, per portarlo poi un po’ dappertutto. In una messinscena dalle architetture sbilenche, ambientata in un accampamento affollato di mutandoni stesi ad asciugare – che un’indaffaratissima Marie si affanna a stirare tra un sovracuto e l’altro – per poi passare al décor di un salotto borghese, la regia di Pelly (scene di Chantal Thomas, costumi dello stesso Pelly, luci di Joël Adam, coreografia di Laura Scozzi, dialoghi di Agathe Mélinand) si è mossa con grande gusto e ottima caratterizzazione dei personaggi, senza forzature e con una comicità lieve, divertita e divertente, in cui gli interpreti si sono calati con adesione quasi goliardica. Il che, insieme alla qualità del canto e dell’interpretazione, ha dato vita a un’edizione irresistibile e applauditissima, da non dimenticare.

 

Visto al Teatro alla Scala di Milano il 4 novembre.

Foto Brescia e Amisano -Teatro alla Scala

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