Al ROF di Pesaro, diretto quest’anno dal celebre tenore Juan Diego Florez, che proprio da qui ha spiccato il volo, abbiamo visto “Le Comte Ory”, “Otello” e una sorprendente “La gazzetta” – Davide Annachini
A più di quarant’anni di gloriosa attività, il Rossini Opera Festival di Pesaro ha avuto l’intelligenza di rimettersi in discussione, affidando la direzione artistica a Juan Diego Florez, il celebre tenore peruviano che proprio da Pesaro – sua città d’adozione – ha spiccato il volo verso una carriera internazionale tra le più luminose. Ma non si è trattata di una scelta ispirata alla star di richiamo, perché Florez – a smentire il popolare detto “testa di tenore” – ha dimostrato sempre nelle sue scelte lucidità, consapevolezza e intelligenza, qualità che si sono ritrovate anche in questa edizione che porta la sua firma, in cui errori di programmazione a conti fatti non se nono visti.
Lo ha dimostrato soprattutto la scelta dei cast, davvero centrati sino nei piccoli ruoli, come ha confermato l’opera inaugurale, Le Comte Ory, che non a caso Florez ha scelto tra i suoi più fortunati cavalli di battaglia per questo esordio. Un’opera incredibile per il 1828 e pensabile solo a Parigi, per il fatto di proporre sotto la fiabesca cornice medievale la storia piccante di un conte assatanato di sesso al punto da adottare i più impensabili travestimenti (prima l’eremita, poi la suora) per insidiare la fedeltà di una contessa con il marito in guerra, a sua volta intrigata però dal giovane paggio del conte. L’epilogo sarà che tutti a tre si ritroveranno a letto, ma nell’oscurità Ory non capirà di fare all’amore con il paggio (interpretato da una donna en travesti) mentre l’onore della contessa sarà involontariamente salvato grazie all’inaspettato ritorno dalla guerra del marito. Opera irresistibile, piena di doppi sensi e dalla musica spumeggiante e scatenata (per lo più attinta dal Viaggio a Reims), Le Comte Ory ha ritrovato in Florez un interprete tuttora inarrivabile, nonostante la difficoltà della parte si prestasse a metterlo a confronto con se stesso, impeccabile vocalmente quanto irresistibile a livello espressivo. E la sua capacità di non segnare le distanze ma di amalgamarsi con il resto della compagnia ha permesso a tutta l’esecuzione di brillare al massimo, a partire dalla Comtesse elegante, musicalissima e sensuale di Julie Fuchs per arrivare al paggio Isolier dalla voce ricca e vibrante del mezzosoprano Maria Kataeva, dal Gouverneur timbricamente affascinante del basso Nauhel Di Pierro al Raimbaud gustoso di Andrzej Filonczyk, dalla Ragonde di Monica Bacelli all’Alice di Anna-Doris Capitelli. Diego Matheuz ha diretto con personalità e autorevolezza l’ottima Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, insieme al Coro del Teatro Ventidio Basso preparato da Giovanni Farina, lasciandosi andare progressivamente all’irresistibile comicità dell’opera e siglando di conseguenza un’esecuzione inappuntabile sotto il profilo musicale.
A lasciare semmai perplessi è stata invece la messinscena a totale firma – fatta eccezione per le luci di Valerio Alfieri – di Hugo De Ana, regista tra i più preziosi del teatro lirico ma che a confronto con un’opera comica non ha saputo raggiungere la stessa qualità delle sue regie nel genere drammatico. Con una cifra visiva sempre di grande impatto, De Ana si è ispirato per le scene alle immagini visionarie del “Giardino delle delizie” di Bosch, intonate a creare un’atmosfera giustamente surreale in possibile sintonia con la musica di Rossini ma che alla fine non hanno trovato una loro chiara giustificazione, insieme ai costumi carnascialeschi e a una recitazione costantemente sopra le righe, che aveva però il limite di non risultare sempre divertente.
Tutto però è stato accolto favorevolmente e calorosamente dal pubblico, diversamente dall’altra nuova produzione del R.O.F., Otello, che alla prima ha avuto ugualmente successo ma anche qualche diffuso dissenso per la regia.
Qui Rosetta Cucchi ha firmato uno spettacolo molto incentrato sul femminicidio e trasportato in epoca più o meno moderna, con alcune soluzioni intriganti – soprattutto nella definizione sovraeccitata e violenta dei personaggi maschili – ma anche con l’inguaribile tentazione di mettere troppa carne al fuoco, con un eccesso di horror vacui spesso ingombrante e sterile, soprattutto nei confronti della musica, talmente sublime da non richiedere alcuna sottolineatura visiva. Detto questo, lo spettacolo evidenziava comunque un’innegabile professionalità esecutiva, grazie alla qualità delle scene di Tiziano Santi, dei costumi di Ursula Patzak, delle luci di Daniele Naldi. La forza di questo Otello – opera difficile quanto amatissima nell’Ottocento tra i melodrammi seri prima dell’avvento dell’omonimo verdiano – stava però in un’esecuzione vincente, grazie alla direzione smagliante nelle sonorità e drammaturgicamente incalzante di Yves Abel, di nuovo con l’Orchestra della Rai. Ma era anche il cast a rispondere al meglio, grazie al sorprendente Otello di Enea Scala, tenore in crescita esponenziale negli ultimi anni per la sicurezza di una voce capace di spingersi in questo caso alle estremità di una parte di baritenore, dall’ampiezza del registro grave allo squillo dei sovracuti, ma anche per una personalità di interprete vibrante e talvolta elettrizzante. Molto a fuoco anche il Rodrigo di Dmitry Korchak, appassionato nella sua disperazione sentimentale e audace nel duetto della sfida tra i due tenori – tutto giocato su una gara di acuti – dove però qualche forzatura è venuta allo scoperto. Convincente, per perfidia e incisività vocale, lo Jago di Antonino Siragusa, terzo tenore piazzato da Rossini in quest’opera a contraltare della primadonna, qui interpretata dalla bravissima Eleonora Buratto, soprano di vocalità fin troppo ampia per questo repertorio – ormai nel suo caso più rivolto a Verdi che al Belcanto – ma gestita con grande intensità, slancio e purezza, al servizio di una Desdemona molto più combattiva di quella verdiana, come Shakespeare avrebbe voluto. Bravi tutti gli altri, Evgeny Stavinsky, Adriana Di Paola, Antonio Garés e Julian Henao Gonzalez.
Compressa tra due colossi come questi, La gazzetta – lavoro tra i meno riusciti nel genere buffo e per lo più confezionato con autoimprestiti da altre opere – rischiava veramente di restare nell’ombra. In realtà si è guadagnata forse il consenso più convincente del festival, grazie anche qui ad un cast azzeccatissimo e ad uno spettacolo a firma di Marco Carniti (scene di Manuela Gasperoni, costumi di Maria Filippi, luci di Fabio Rossi) già presentato nel 2015 e tuttora godibilissimo per la regia garbata, la spiccata caratterizzazione dei personaggi, la felicità delle soluzioni sceniche. Qui hanno monopolizzato la situazione il Pomponio vocalmente imponente e accattivante nell’interpretazione di Carlo Lepore e il Filippo di Giorgio Caoduro, giovane baritono di bellissima vocalità e intelligenza espressiva, insieme alla Lisetta pungente e cristallina di Maria Grazia Schiavo. Buono l’Alberto di Pietro Adaini e bravissimi tutti gli altri, Martiniana Antonie, Andrea Nino, Alejandro Balinas, Pablo Galvez, sino all’irresistibile Tommasino del mimo Ernesto Lama. Brillante e riuscitissima la direzione di Carlo Rizzi, che, a capo dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini e del Coro del Teatro della Fortuna preparato da Mirca Rosciani, ha siglato un’esecuzione applauditissima dal pubblico.
Visto al Rossini Opera Festival 2022 il 9, 10, 11 agosto