Tornato in Italia per una data secca del suo nuovo spettacolo Sacré – agli Arcimboldi di Milano- Sergei Polunin conferma la sua grandezza. Ma anche le pericolose fragilità del suo progetto.- Silvia Poletti
Sergei Polunin ha fatto una fulminea apparizione a Milano nel week end di Sant’Ambrogio. Giusto per presenziare all’apertura della Scala, ospite di Domenico Dolce, partecipare alla presentazione di The Cal Pirelli, dove appare accanto a Laetitia Casta in un eroticissimo Tango e soprattutto agli Arcimboldi per il suo ultimo spettacolo Sacré: una data secca per saggiare il polso della sua popolarità in Italia e convincere operatori di festival futuri – tutti schierati nelle prime file di platea- a programmare prossimamente il costosissimo programma. La risposta di pubblico dovrebbe invogliare: frotte di spettatori si sono affrettate ad applaudire il danzatore, forte del suo carisma e della sua immagine ( veicolata da grandi brand di moda e fotografi come LaChapelle, oltre che ormai dal cinema – attesa la sua prova in ‘The white crow di Ralph Fiennes sulla fuga in Occidente di Nureyev, dove però farà la parte del suo antagonista al Kirov, lo sfortunato Yuri Soloviev). Dalla formula proposta – con diverse possibilità di biglietti, compresi quelli elitari e ‘de luxe’ con accesso al back-stage e brindisi con il divo – si capisce chiaramente che dietro a queste operazioni c’è la volontà di fissare un vero e proprio brand ( come del resto fa Bolle), con una strategia di marketing per ‘realizzare’ il più possibile, utile, si dice, a sviluppare progetti artistici indipendenti che ormai sono la sua priorità. Il rischio, innegabile, è però dietro l’angolo: quello di abbassare la sua arte somma alla routine commerciale, alla mercificazione di sé stesso, al pericolo non trascurabile di irrigimentarsi nel cliché in cui hanno imparato ad amarlo e conoscere milioni di persone, senza vera possibilità di crescita e maturazione artistica. Il rischio cioè di appiattirsi su ciò che si aspettano – e si aspetteranno sempre da lui- gli spettatori, piuttosto che essere lui a guidare a nuove conoscenze e scoperte il pubblico. Quello che, in fondo, ha fatto Mikhail Baryshnikov – tanto per fare un esempio- che a settant’anni compiuti continua ancora a spargere il suo incantesimo portando il pubblico a scoprire con lui nuove modalità di arte teatrale.
E lui è davvero l’ esempio, giacché quando si guarda danzare Polunin, immediatamente viene in mente Baryshnikov. Diversi per fisico e personalità, hanno la stessa aura che si sviluppa quando danzano. Nello specifico, non è tanto il livello dei tecnicismi, ma come questi tecnicismi ‘appaiono’: nel fluire naturalissimo e senza alcuno sforzo visibile, delle sequenze coreografiche i giri o ancora di più i salti sono soffici, sospesi, senza tempo: tolgono letteralmente il fiato a chi li osserva per la qualità delicata e insieme virile dello scatto, per l’effetto ballon – cioè il fermo immagine illusorio che vince la gravità- per la purezza e il nitore dell’esecuzione. Ma, come già per Baryshnikov, ovviamente anche in Polunin c’è di più: un senso di trattenuta malinconia, di nobile naturalezza, di tenerezza e fragilità oltre che un’esplosiva carica di rabbia che sono materie preziose da veicolare in espressione artistica.
E qui, appunto, sta ancora una volta il problema. Perché con un artista di questa portata e ancora esplorabile potenziale, un coreografo dalla forte cifra autoriale potrebbe veicolare intensità e fisicità in un vero lavoro d’arte. Invece, come già in Satori, anche in Sacré è la proposta coreografica che si dimostra debole e certamente non degna di quello che Polunin può fare. Partiamo proprio dal lavoro che dà titolo alla serata. Punto di partenza Le Sacre du Printemps di Stravinsky -in una tessitura tra versioni pianistiche e sinfoniche- che la giovane coreografa giapponese Yuka Oishi ha imbastito sul solo Sergei. Impresa da far tremare i polsi già sulla carta: reggere da solo trenta minuti di una musica così è davvero sfida improba. Non male né forzosa l’ idea della Oishi di evocare su di essa il travaglio artistico e umano di Nijinsky: si attaglia bene alla personalità dell’interprete la leggenda di un danzatore sublime che rivoluzionò con audacia impensabile l’arte coreografica proprio con la scandalosa e leggendaria messa in scena di Le Sacre, ma poi soccombette all’alienazione e ai tormenti del tempo tragico in cui viveva. Del resto l’autrice deve essere stata influenzata dalla lunga militanza nell’ Hamburg Ballett di Neumeier, celebre cultore del mito Vaslav,al punto da averlo reso protagonista di ben tre suoi importanti lavori. Sfortunatamente però la coreografa sembra non aver assimilato l’importante lezione teatrale del suo maestro: nel cerchio di foglie che lo imprigiona, in un andamento anodino che va a grave detrimento della tensione drammatica, praticamente ‘nulla’, in un affastellamento di citazioni dai ruoli iconici del mitologico ballerino giustapposti senza vera rielaborazione linguistica e invenzione di vocabolario, Sergei snocciola alternativamente momenti di pathos tradotto in contorsioni enfatiche e esplosioni del suo mirabile classicismo che -al di là della bellezza assoluta- qui risultano pretestuose, senza logica drammatica appunto. Ci si perde così nel singhiozzante sviluppo della danza, che a volta fa sembrare smarrito anche l’interprete.
Nella sua non pretenziosa realizzazione, il pezzo di apertura Fraudulent Smile dell’altrettanto giovane Ross Freddie Ray su musiche kletzmer risulta allora più centrato. Alcuni danzatori ( messi insieme da Polunin per il progetto) con trucchi da clown e movenze scattanti, mi muovono irrigimentati da un oscuro e ambiguo dominus anch’esso in maschera ( si tratta di Johan Kobborg, interprete conclamato che contribuisce in maniera fondamentale alla riuscita del pezzo con tutta la sua autorevolezza interpretativa). Il tema è la facile corruzione di anime buone e si sente in lontananza un riferimento alla vita turbolenta di Sergei: il quale appare qui toccante nella sua tenerezza con la compagna, nell’ appassionata ribellione, nel soccombere finale alla omologazione. Ray utilizza, ca va sans dire, tutto il repertorio di giri, salti, batterie che hanno reso celebre Polunin, ma tenta di omogeneizzare il tutto nella dialettica con gli altri e soprattutto con quello che vuole esprimere. Non male, ma ancora molto acerbo. E sorge quindi la domanda: alla lunga esperimenti come questi possono davvero bastare a Sergei?
foto di apertura di Alice Das Neves, Polunin in Sacré