Romeo Castellucci costruisce come sempre una partitura di immagini e visioni che turba e interroga profondamente il nostro inconscio. Ma lo spettacolo, giunto quasi al termine, sembra smarrire la sua misura, privando il pubblico di una catartica conclusione – Renato Palazzi
Alla fine di Go down, Moses, il nuovo spettacolo di Romeo Castellucci presentato a Roma, in un Teatro Argentina ancora scosso dalle polemiche per il Natale in casa Cupiello di Latella, mentre sto infilando in tasca il taccuino degli appunti mi si avvicina una giovane donna che non conosco: ha un tipico sguardo un po’ smarrito e un po’ incazzato, un po’ supplichevole e un po’ di sfida che mi è capitato di vedere altre volte. So già cosa sta per chiedermi. «Scusi, lei è un critico?». E poiché non trovo argomenti per negare, aggiunge subito: «Potrebbe spiegarmi cosa significa quello che abbiamo visto?». Non voglio rispondere alla domanda così, sui due piedi, e allora insiste: «può almeno dirmi per che testata scrive, in modo da leggere le sue spiegazioni?».
Capisco chi, non essendo un abituale frequentatore del teatro contemporaneo, si trova spiazzato da una certo tipo di sintassi rappresentativa. Ma in quella richiesta di aiuto c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato. Uno spettacolo non è un quiz della Settimana Enigmistica, a cui occorre dare delle risposte necessariamente giuste o errate, senza sfumature. Uno spettacolo, qualunque esso sia, è sempre una costruzione labile, misteriosa, un percorso intellettuale verso una verità comunque soggettiva. Non esistono critici-oracoli in possesso di certezze che agli altri sfuggono. Soprattutto nel caso delle creazioni di Castellucci, che nascono da un flusso di libere associazioni, da un “montaggio” di suggestioni non sottomesse a uno sviluppo narrativo, ci sono delle situazioni sulle quali interrogarsi, delle domande che il critico deve porsi, esattamente come qualunque normale abbonato.
Io non credo che quella spettatrice, come altri intorno a lei, che magari fischiavano o mugugnavano, fosse investita da un problema di chiarezza. Ciò che le mancava non era dei messaggi univoci da parte del regista, degli ammaestramenti che in genere sarebbe meglio cercare altrove: anzi, in questo senso Go down, Moses sembra già fin troppo didascalico. Ciò di cui era orfana, come tanti a mio avviso oggi lo sono, è una trama a cui aggrapparsi per dare un filo conduttore alle proprie sensazioni. Provo dunque a raccontare lo spettacolo come se quella trama davvero ci fosse, come se i suoi nuclei concettuali potessero essere inquadrati in una sequenza ragionata di avvenimenti, e non arrivassero soltanto per flash allusivi, per accenni.
Sintetizzando al massimo, diciamo allora che in questa personale rilettura della vicenda biblica da parte del regista romagnolo Mosè non appare mai direttamente in scena, non c’è, resta un puro riferimento simbolico. Il contesto in cui l’azione si svolge è una società nella quale siamo schiavi di molti invisibili poteri, primo fra i quali il culto dell’immagine, la dedizione al nuovo vitello d’oro evocato, nella scena iniziale, da un gruppo di persone in eleganti abiti moderni in visita a un museo o al vernissage di una mostra dove è esposta una sola opera, il Leprotto di Dürer. Che il tema sia un’ossessiva attenzione per le apparenze è dimostrato dal fatto che quelle persone cominciano a misurarsi scrupolosamente fra loro, a confrontare le rispettive altezze e lunghezze degli arti.
In una tale condizione, l’avvento – o il non avvento – del profeta che dovrà affrancarci da questa odierna servitù, come annunciato dallo spiritual da cui lo spettacolo prende il titolo, non potrà che avvenire in circostanze marginali, richiamando uno di quegli atroci casi di cronaca che troviamo di continuo sulle pagine dei giornali: nella scena successiva, piuttosto impressionante, vediamo infatti una ragazza che partorisce nel cesso di una stazione o di un locale, da sola, con la testa nel water – l’acqua dello sciacquone che rimanda alla corrente del Nilo? – cercando invano, pateticamente, di ripulirsi dal sangue che cola da ogni parte, un’emorragia che è l’equivalente della diarrea da cui era afflitto il vecchio al centro di Sul concetto del volto nel figlio di Dio. Anche quella preoccupazione di occultare il sangue, anziché chiedere aiuto, è in fondo il tributo a una società dell’immagine.
Il terzo quadro ci mostra un cassonetto per l’immondizia, stagliato in una luce intensa, livida, mentre delle didascalie luminose informano il pubblico che la ragazza è stata scoperta accanto ad esso, con il corpo di un neonato avvolto in un sacco nero della spazzatura, sporco di sangue. Passiamo quindi a un commissariato di polizia, dove un ispettore interroga la ragazza, avvolta in una coperta. Il tono è quello di chi ha a che fare costantemente coi disperati: parli la nostra lingua? Mi capisci? Hai agito di tua iniziativa, o qualcuno ti ha costretto? Poi le chiede ripetutamente cosa ne ha fatto del bambino. Lei sostiene, come in preda al delirio, di averlo salvato. Da cosa?, chiede l’ispettore. La risposta, che pare arrivare da un altro luogo e un altro tempo, la dice lunga: «Non si può continuare a fabbricare mattoni per il faraone».
La ragazza, molto provata, viene introdotta in un apparecchio per la risonanza magnetica. Un canto struggente si mescola col caratteristico rumore stridente della macchina. Con un colpaccio di genio, il procedimento diagnostico diventa come un viaggio interiore, una sorta di discesa nell’inconscio: l’uscita dal foro dell’apparecchio proietta infatti la ragazza in una sorta di caverna primordiale, dove degli uomini-scimmia nudi – perfetta antitesi dei visitatori di musei della prima scena – si aggirano e si nutrono, danno alla luce dei figli nati morti e poi tornano ancora ad accoppiarsi, rispondendo solo ai loro istinti primari.
È in questa caverna, più o meno platonica, che troveremo l’affrancamento dal vitello d’oro? Forse no, visto un’ignota mano che imprimerà col sangue i propri contorni su una parete di roccia, prima avvisaglia dell’impulso artistico. E il rifugio ancestrale sembra avere tutti i caratteri di un’altra prigionia, dato che una delle sue abitanti si avventa contro il velario che la separa dalla platea, vergandovi, sempre col sangue, un rosso e angosciato SOS.
Riassunto così, il contenuto dello spettacolo lascia pochi dubbi, ogni tassello sembra andare al proprio posto. Ma è soltanto un’impressione, un inganno prospettico, come lo è sempre qualunque intreccio drammaturgico che dia l’illusione di una logica, di una coerenza che in realtà non fa parte della vita. Invece le questioni davvero sostanziali restano a mio avviso aperte, affidate all’interpretazione del singolo. Il Mosè messo al mondo in quel modo dalla ragazza, ad esempio, verrà salvato dalle acque o dalla spazzatura per assolvere al suo ruolo salvifico – come lei sostiene – o diventa vittima di uno dei tanti ignoti infanticidi?
Da questo interrogativo ne discende naturalmente un altro, non secondario rispetto al significato da dare allo spettacolo: è lui, un Mosè poco importa se presente o assente, a guidarci in questo itinerario dal bagno all’ospedale alla caverna, oscura terra promessa, o in quell’antro della psiche ci troviamo precipitati proprio per essere rimasti senza guida? La caverna appartiene al passato del genere umano – come il suo aspetto lascia supporre – o è l’approdo di un sinistro futuro in agguato, come pare testimoniare una incongrua betoniera abbandonata in mezzo ad essa? È l’origine da cui veniamo o la meta che ci attende, in una eterna circolarità nella quale nulla cambia, nulla evolve, e i nostri comportamenti restano inesorabilmente uguali a se stessi?
Un quesito, in particolare, si impone su tutti: come può avvenire il rigetto di una civiltà dell’immagine da parte di un artista come Castellucci, portato a esprimersi specialmente per immagini, attraverso delle folgoranti composizioni visive? Si potrebbe, forse, supporre che esista una qualche differenza tra l’immagine e l’invenzione visiva? E in tal caso, quale?
È ovvio che questa tendenza a suscitare idee, a innescare ulteriori riflessioni non è un portato accidentale dello spettacolo, la conseguenza di una sua mancanza di chiarezza, ma fa parte intimamente di esso, è – nel bene o nel male – lo scopo ultimo in funzione del quale l’intero meccanismo viene messo in moto. Attraverso i suoi scorci onirici, attraverso la sua incalzante partitura gestuale e sonora – a volte alta, lacerante, a volte decisamente più scontata – il regista costruisce passo passo questo fitto apparato di pensiero: il problema, semmai, è che giunto al culmine della tensione questo flusso sensoriale si spegne bruscamente, si interrompe all’improvviso senza un vero scioglimento, senza qualcosa di vicino a una sorta di catarsi.
Proprio nel pieno della scena della caverna, esso pare semplicemente esaurire la sua spinta, come se Castellucci non riuscisse più a portarlo avanti, come se avesse smarrito la misura di certe grandi architetture spettacolari del passato. Attiva un grande dispendio di energie intellettuali che poi, in definitiva, non sembrano arrivare da nessuna parte, restano lì in sospeso, lasciando in chi vi si abbandona una vaga punta di rammarico.
Visto al Teatro Argentina di Roma
Go down, Moses
di Romeo Castellucci
regia, scene, luci, costumi: Romeo Castellucci
testi: Claudia Castellucci, Romeo Castellucci
musica: Scott Gibbons
una produzione Socìetas Raffaello Sanzio
con: Rascia Darwish, Gloria Dorliguzzo, Luca Nava, Stefano Questorio, Sergio Scarlatella
Molti spettatori sono rimasti frastornati . Andrebbe almeno distribuito un foglietto di chiarimenti!!