Fondatrice con il marito Julian Beck del Living Theatre, indomita nel perseguire ideali libertari e non violenti, si è spenta a 88 anni. Il suo ultimo viaggio in Italia risaliva al 2013 – e.f.
E così, dopo Luca Ronconi, si è spenta un’altra voce calda e appassionata (benché diversissima, lo diciamo per quei pochi, magari giovanissimi, che non sanno chi fosse Judith Malina) del teatro del secondo Novecento. Judith avrebbe compiuto 89 anni il prossimo 4 giugno. Non ha fatto in tempo a raggiungere questo traguardo a causa dei problemi di salute con i quali conviveva da tempo, accompagnata da una bombola d’ossigeno che le consentiva una sia pur limitata libertà di movimento. “Libertà” è certamente la parola che meglio si addice a questa artista indomita che, dopo la morte del marito, Julian Beck, nel 1985, si era caricata sulle spalle l’eredità ingombrante del Living Theatre e ne aveva proseguito il cammino.
Un cammino accidentato come l’intera sua vita, una strada quasi mai lastricata d’oro ma ricca di passione&contestazione (agita e subìta). “Contestazione” è un’altra parola-chiave per comprendere il percorso artistico della coppia Beck-Malina e della loro creatura, quel Living Theatre che era di casa in Italia fin dai primi anni ’60 e poi negli anni della “contestazione”, il “mitico” ’68 in cui il Living mise in scena il suo manifesto libertario, Paradise Now. Se la memoria non ci inganna, l’ultimo viaggio in Italia di Judith risale al 2013, quando si esibì assieme ai Motus (lo ricorda oggi Silvia Calderoni sul suo profilo fb) e poi al Teatro Valle occupato, aggiungendo una testimonianza di peso a un’esperienza di autogestione che – comunque la si pensi sul tema – aveva parecchio in comune con la lezione di Julian e Judith.
Figlia di un’ex-attrice e di un rabbino trasferitisi a New York nel 1929 dalla città tedesca di Kiel, quando la tempesta nazista già incombeva, Judith conobbe Julian nel 1945, frequentando i corsi di Erwin Piscator, maestro del teatro epico con Brecht ed esule come loro dalla Germania. Due anni più tardi nasceva il Living Theatre, che seppe conquistarsi un posto di rilievo nel campo, all’inizio non molto frequentato, dei diritti civili, della liberazione sessuale, dell’antimilitarismo e del pacifismo (The Brig, 1963). In una parola della controcultura destinata a esplodere come fenomeno sociale e politico prima nei campus universitari Usa e poi nelle facoltà e nelle fabbriche europee durante i Sessanta. Sempre nel ’63 un procedimento fiscale obbligò Julian e Judith a chiudere il Living e trasferirsi in Europa, dove le loro performance assunsero toni ancor più radicali, in sintonia con il clima turbolento di quegli anni.
La morte nel 1985 di Julian Beck, artista e intellettuale raffinato malgrado gli eccessi, sembrò porre termine all’esperienza del Living ma Judith, risposatasi con Hanon Reznikov tre anni più tardi, non si arrese alle circostanze e proseguì il cammino testardamente, riallestendo i vecchi spettacoli, proponendone di nuovi, ricercando il sostegno economico di ex attori e attrici del Living che avevano fatto fortuna (Al Pacino fu tra questi) e continuando a tessere quella rete di conoscenze internazionali che, sia pur con frequenti alti e bassi, ne hanno sostenuto l’attività fino a oggi.
La memoria del Living Theatre rimane indissolubilmente legata a spettacoli come i già citati The Brig, Paradise Now, Antigone, tutti collocati in un arco temporale abbastanza preciso, ma l’influenza esercitata dai due fondatori si ritrova ben oltre l’orizzonte della “summer of love” e del ’68. È un’eredità frantumata, non sempre facile da riconoscere, ricca di contraddizioni, forse anche di errori, ma la sua radicale aderenza a un progetto utopico sempre in bilico fra realtà e finzione, tra disciplina e caos, è imprescindibile per chiunque desideri ricostruire i percorsi delle performing arts a partire dal secondo dopoguerra.