Scomparso a Torino, aveva 80 anni. A lungo assistente di Strehler, è stato una figura particolare nel teatro italiano del secondo Novecento: intelligente, acuto, spiritoso, ha incarnato una voce diversa, più sarcastica e graffiante, rispetto ai maestri della generazione appena un po’ più matura della sua – Renato Palazzi
Il regista Mario Missiroli, scomparso l’altro giorno a Torino all’età di ottant’anni, è stato una figura particolare nel teatro italiano del secondo Novecento: intelligente, acuto, spiritoso, ha incarnato una voce diversa, più sarcastica e graffiante, rispetto ai maestri della generazione appena un po’ più matura della sua, la generazione di Strehler – di cui è stato a lungo assistente – di Squarzina, di De Bosio, col loro senso della messinscena “alta”, con la loro concezione di un teatro prevalentemente politico-didascalico.
Missiroli, rispetto alle consuetudini della scena di allora, amava i testi poco frequentati, scomodi, provocatori. Non a caso ha allestito l’unica opera di Giovanni Testori entrata nei programmi del Piccolo Teatro, La Maria Brasca, del ’61, con l’insolita interpretazione di Franca Valeri. Non a caso ha affrontato i grandi autori polacchi praticamente ignorati dai nostri registi: Il matrimonio di Gombrowicz, la Commedia ripugnante di una madre di Witkiewicz. E poi Evita Peron di Copi, un altro grande talento acre e sgradevole, e il dissacrante “ciclo dell’eroe borghese di Carl Sternheim, mai più rappresentato da altri, se non sbaglio.
Amava le contaminazioni dei generi e degli stili: nel suo percorso spicca anche, a buon diritto, un musical irriverente scritto con Alberto Arbasino, Amate sponde. E di Arbasino era anche il soggetto di un film da lui girato nel ’62, La bella di Lodi, con Stefania Sandrelli. Amava le forzature grottesche, anche in senso attorale: si deve a lui una messinscena de Le serve di Genet con un giovane Copi nel ruolo di madame (le domestiche erano Adriana Asti e la “diva” delle cantine Manuela Kustermann), si deve a lui un Tartufo di Molière con Ugo Tognazzi nei triplici panni del protagonista, di madama Pernella e dell’ufficiale reale, ridotto a una sorta di caricatura di Amintore Fanfani.
Non aveva una personalità fortemente trasgressiva come Giancarlo Cobelli, non è stato un grande eccentrico della scena come Aldo Trionfo. Ha piuttosto saputo conciliare il suo talento irriguardoso con una certa vocazione istituzionale. E infatti il meglio della sua attività lo ha dato negli anni – dal ’76 all’84 – in cui ha diretto lo Stabile di Torino: si ricordano, di quel periodo, un bellissimo Zio Vanja con la splendida scenografia di Giancarlo Bignardi e un eccellente Gastone Moschin, uno dei migliori in quella parte (’77), l’importante confronto con un dramma di ardua rappresentazione, Verso Damasco di Strindberg con Glaudo Mauri e Annamaria Guarnieri (’79), un’edizione anti-strehleriana dei Giganti della montagna di Pirandello, con un’invadente scenografia metallica di Enrico Job ((’79), un’irresistibile Mandragola con Paolo Bonacelli (’83).
Ma a titolo di curiosità non si può non citare il destabilizzante Musik di Frank Wedekind, una sorta di parodia dei melodrammi lacrimosi in voga tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, che Missiroli – con la complicità di Job – aveva sadicamente ambientato su un palcoscenico oscillante e traballante, su cui la sua musa, la sua attrice prediletta Annamaria Guarnieri, con elmo e trecce da valchiria wagneriana, si batteva per mantenersi faticosamente in pedi. Le sue ultime regie – finché è rimasto sulla breccia – sono state dei puri esercizi di mestiere: ma Il pellicano di Strindberg, proposto nel ’98 con Ilaria Occhini, era ancora esemplare per lucidità e perfidia.