Il fluviale progetto “Animale Politico” del gruppo riminese si è arricchito di una nuova tappa di raccordo, basata scespirianamente sull’idea di sradicamento, di rivoluzione permanente – Maria Grazia Gregori
Dentro un progetto fluviale intitolato “Animale Politico Project” che occuperà i Motus fino al 2068, data che probabilmente pochi di noi vedranno, a cento anni dal mitico Sessantotto, il gruppo riminese ha portato quest’anno al Festival delle Colline torinesi un breve lavoro di cinquanta minuti dal titolo Caliban Cannibal, quello che Bob Wilson chiamerebbe un knee play, una performance che serve da collegamento fra un momento e un altro di un work in progress. Dopo Nella tempesta, presentata qui a Torino proprio l’anno scorso, dopo naufragi segnati da una qualche speranza di un futuro diverso, il focus dei Motus si concentra su due personaggi: A che potrebbe essere Ariel e C che sta per Caliban, due senza radici che cercano il senso della propria esistenza tentando di creare dei legami con una cultura e una vita possibili. Il luogo del loro incontro è una tenda leggera, una tenda di primo soccorso per rifugiati che si prepara e si chiude in pochi minuti, una specie di Zattera di Babele per questi sradicati della vita provenienti da esperienze angoscianti e al limite che provano a parlarsi con un linguaggio che mescola italiano, francese, arabo e un po’ di inglese.
Lei è Silvia Calderoni, che porta con sé nel suo viaggio uno zainetto, una “big bag” dove sta dentro tutto il suo mondo e “il fiore della morte”, il crisantemo che poi mangerà; lui, un non attore, è Mohamed Ali Ltaief, di origini berbere, che ha partecipato “alla rivoluzione dei gelsomini” tunisina, cercato di capire anche quella egiziana e che ora è qui con una valigia piena di libri scritti nell’amata/odiata lingua francese e nella lingua araba dei suoi amati maestri. Due sradicati che hanno tutto per intendersi a cominciare da quel senso di provvisorietà che accompagna la loro vita. Questi due però non stanno fisicamente di fronte a noi sul palcoscenico, la loro immagine, le loro storie, le loro riflessioni, ci arrivano attraverso due schermi posti ai lati della tenda, in un continuo confronto bipartito che li vede però spesso insieme del tutto simili a due naufraghi che pensano di trovare un appiglio nella loro vita, grazie a una fame di conoscenza che li rende fratelli.
Poi, alla fine, eccoli di fronte a noi in carne ed ossa, pronti per un nuovo viaggio verso chissà dove. Lei e lui, dunque, come sradicati destinati a vivere nella sabbia e nel vento con la disponibilità di andare sempre oltre (“preferiamo vivere in una tenda mobile piuttosto che morire in un teatro stabile”, dicono) alla ricerca di qualcosa che non è il potere ma che ha a che fare piuttosto con la libertà di essere se stessi. Ma il senso di tutto arriva troppo mediato, troppo teatralmente evanescente. Come scrivevo all’inizio è una performance di raccordo, di passaggio, una tappa per un viaggio verso chissà dove, lungo chissà quanto.
Visto al Festival delle Colline torinesi. Dal 17 al 20 luglio 2014 al Festival di Santarcangelo