Il regista, alle prese per la prima volta con l’immortale testo beckettiano, punta sul tema del doppio e su una regia per nulla metafisica, quasi mediterranea – Maria Grazia Gregori
È vero: crediamo di sapere tutto su Aspettando Godot, forse il testo più famoso e più rappresentato di Beckett, che lo scrisse a cavallo fra il 1948 e il 1949, ma ogni volta basta vederlo in scena per scoprire qualcosa di nuovo. Non tanto nell’ermeneutica di Godot portata avanti dai cosiddetti “puristi” beckettiani, quanto piuttosto nel gioco scenico, nel modo di interpretarlo all’interno di coordinate spaziali che sono sempre quelle: un luogo desolato nella periferia di una grande città dove sempre brillerà la luna e dove un salice rinsecchito improvvisamente metterà qualche rara foglia. Anche l’attesa di chi non verrà sarà sempre la stessa, chi si aspetta darà ogni volta forfait annunciandolo grazie a un giovane messaggero (Michele Degirolamo), gettando ogni volta nella disperazione Estragone e Vladimiro , Gogo e Didi, coppia di clochard arrivati da chissà dove e da chissà quali esperienze di vita. Esseri segnati dalla paura e handicappati dal mal di piedi, alla perenne ricerca di scarpe comode e di se stessi…
Vedendo in questi giorni in scena al Teatro Carcano di Milano Aspettando Godot di Maurizio Scaparro, primo Beckett del regista romano, ci si rende conto che nella sua prospettiva umanissima, con l’eco lontana di una vecchia canzone di Charles Trenet, quello che conta è soprattutto l’attenzione al “jouer” che per noi significa solo giocare ma che per i francesi, nella cui lingua Beckett scrisse questo capolavoro, vuol dire anche e forse soprattutto recitare e che recitare è recitare, e recitare è un gioco. Che in questo caso significa anche come costruire un proprio spazio, come riempirlo di solitudine, angoscia, nonsense, clownerie, con la bombetta sulla testa oppure no, con le scarpe oppure a piedi nudi. Proprio per questo la regia di Scaparro sottolinea la notevole importanza del confronto fra due coppie, quella formata da Didi e Gogo e quella di Pozzo e Lucky, che più che coppie sono “doppi” gli uni degli altri anche se nei primi è difficile trovare l’insopportabile violenza di Pozzo nei confronti di Lucky e la follia carica di aggressività e di parole di Lucky – che al contrario del suo nome, proprio fortunato non è – nei confronti di tutti.
Con estrema delicatezza, Scaparro introduce segni che ci fanno ricordare il suo mondo artistico: la canzone popolare, la silhouette in filigrana della Tour Eiffel, la luna di cartone, gli ingenui giochi di prestidigitazione. E grazie a tutto questo, sostenuto da un evidente amore per il testo, traccia la linea di confine di un Aspettando Godot per nulla metafisico, ma umanissimo, non plumbeo, ma solare, quasi mediterraneo, a fare da spartiacque alla commistione di registri alti e bassi con cui quella particolare sospensione dell’esistenza fra passato e futuro dell’Estragone popolare e terragno di Antonio Salines e del Vladimiro di Luciano Virgilio, che conserva un barlume di signorilità pronta immediatamente a sfaldarsi di fronte all’altra coppia antagonista formata dal Pozzo sopra le righe di Edoardo Siravo e da un nevrotico, vendicativo Lucky (Enrico Bonavera), tutti prigionieri del tempo che passa, scandito dalla luce che svanisce a poco a poco lasciando spazio alla luna. È proprio questo teso intrecciarsi di rapporti, che porta come conseguenza una sovrapposizione dei personaggi trasformandoli in doppi, a venire con forza in primo piano in questo Aspettando Godot.
Visto al Teatro Carcano di Milano. Repliche fino al 23 novembre 2014
Aspettando Godot
di: Samuel Beckett
regia: Maurizio Scaparro
interpreti principali: Antonio Salines (Estragone), Luciano Virgilio (Vladimiro), Edoardo Siravo (Pozzo), Enrico Bonavera (Lucky)
e con Michele Degirolamo, nel ruolo del Ragazzo
scene di Francesco Bottai
costumi di Lorenzo Cutùli
traduzione di Carlo Fruttero
Produzione Compagnia Teatro Carcano