Renato Palazzi risponde all’intervento di Antonio Audino su questo sito, sollecitato dallo spettacolo di Antonio Latella attualmente in scena al Teatro Argentina di Roma
Caro Antonio,
mi dispiace, ma devo dirti che stavolta non sono d’accordo con te. Anzi, forse non mi dispiace affatto, perché questa divergenza di opinioni ci dà l’occasione di aprire un sano confronto sul problema che hai sollevato, che è sempre una prassi utile per mettere a fuoco le idee.
Non sono d’accordo, in primo luogo, sul fatto di annoverare Antonio Latella alle file di un teatro in qualche modo “sperimentale”: Latella, a mio avviso, si colloca naturalmente nel solco del teatro di regia, è anzi uno degli ultimi veri esponenti della regia, a cui intreccia elementi di linguaggio del teatro contemporaneo. Lui, a mio avviso, è proprio l’ideale anello di congiunzione tra le aspettative di un pubblico legato alla tradizione e quelle di chi in palcoscenico cerca nuove suggestioni.
Da anni, personalmente, ritengo che sarebbe il candidato perfetto – lucido, informato, maturo al punto giusto – per la direzione di un importante teatro stabile.
Non sono d’accordo nemmeno con l’idea – che sembri suggerire più o meno indirettamente – che i grandi maestri della regia del Novecento fossero figure di riferimento per qualche aspetto tradizionali. Io credo che certi spettacoli di Ronconi siano per il comune spettatore persino più difficili e impegnativi da decifrare di quelli di Latella. Basta pensare al controverso esito de La modestia di Spregelburd, che personalmente mi ha alquanto divertito, ma che molti abbonati ricordano forse come un autentico esercizio di sadismo nei loro confronti.
Dubito anche che questa sorta di ecumenismo estetico da te caldeggiato avesse una qualche effettiva rispondenza al tempo di Strehler e delle fasi iniziali del “servizio pubblico”. Io non posso parlarne con cognizione di causa perché ero praticamente appena nato: ma credo che per il pubblico della scena entre deux guerres, per il pubblico abituato alle commedie dei telefoni bianchi, delle ultime compagnie capocomicali, della conta degli applausi nelle recensioni di Renato Simoni, lo stile epico dei primi testi brechtiani rappresentati in via Rovello, l’effetto di straniamento, la rinuncia all’apparato e soprattutto all’enfasi spettacolare fossero abbastanza duri da digerire. E infatti si sprecavano le battute sulla dizione gelida, sulla “recitazione da frigidaire”.
Io credo, Antonio, che negli anni Cinquanta certi interventi demiurgici dei registi allora più creativi fossero da considerare audaci avanguardismi tanto quanto le forzature, il furore espressivo di Latella. Se questi slanci innovativi fossero stati riservati a pochi eletti, se fossero stati confinati dentro spazi collaterali, “minori” rispetto alle sedi principali, probabilmente la storia del teatro italiano si sarebbe mossa più lentamente.
Invece la rete organizzativa del Piccolo e degli altri stabili – che era, vale la pena di ricordarlo, molto più sofisticata, molto più estesa, molto più ramificata di quanto oggi si possa anche solo vagamente immaginare, basti pensare agli stretti contatti coi sindacati, coi partiti, con le rappresentanze delle scuole e delle fabbriche, le “truppe cammellate”, gli “ottentotti” su cui molti ironizzavano, ma che sono diventati il nerbo di una fondamentale riforma teatrale – è riuscita a poco a poco a imporre queste esperienze avanzate a un massa più vasta di fruitori. Ne ha fatto lo specchio di una società, il fulcro di una diffusa partecipazione culturale.
Per questo non credo che uno spettacolo come Natale in casa Cupiello andasse programmato all’India. Non credo in genere che si tratti di problemi di sede, e non credo – nello specifico – che ci debba essere uno spazio destinato a certi prodotti di difficile consumo e un altro che accoglie proposte rivolte a palati meno preparati e raffinati. Così si otterrebbe solo di creare dei ghetti, dei recinti, delle invalicabili barriere tra i pochi fortunati che vanno avanti e i nostalgici dei vecchi mattatori. Credo che oggi più che mai il teatro esprima delle contaminazioni di linguaggi, delle continue mescolanze di discipline, generi, stili. Solo una graduale ma ferma apertura ai motivi del nuovo può garantire che la sensibilità collettiva si smuova, che il teatro non resti fermo a codici e valori sempre più palesemente superati.
Non per citare prevedibili modelli di virtù, ma ti ricordo che Ricci/Forte erano stati normalmente ospitati nella stagione del Piccolo di Milano, accanto a Lavia e a Maccarinelli, seguiti con interesse, e in un silenzio assoluto. Ti ricordo che Un tram che si chiama desiderio nella messinscena spiazzante, trasgressiva di Latella – tutta dentro e fuori dal testo – era stato presentato nello storico Teatro Grassi, facendo discutere, trovando magari chi prendeva le distanze, ma senza offendere o scandalizzare nessuno. Cosa diremmo, d’altronde, di un’istituzione pubblica che nega la sua ribalta principale a uno dei più importanti, a uno dei più provocatori fra i registi europei di oggi? Ed è d’altronde più provocatorio Latella o Marthaler?
Certo, questo interscambio dei gusti e delle tendenze non si improvvisa dall’oggi al domani. È un ricambio estetico che va preparato, guidato, indirizzato a poco a poco. Ma nessun teatro può permettersi di sottrarsi agli orientamenti artistici del suo tempo. Nessun teatro può accettare passivamente i condizionamenti degli spettatori meno attenti e preparati: non è assecondandone gli umori che li si aiuta a comprendere e accettare i cambiamenti in atto. Ogni teatro può e deve, a mio avviso, addestrare il proprio pubblico: deve spiegarsi, illustrare, chiarire, dibattere, promuovere incontri, ma restando fedele alla sua linea, senza inseguire la parte più conservatrice della platea. Gli stabili, del resto, non erano nati appunto a questo fine?
Servirebbe, ovviamente, anche una critica unita e compatta nella consapevolezza della propria responsabilità formativa e informativa, ferme restando le diverse posizioni. Se gli stessi addetti ai lavori cominciano a essere divisi, rancorosi, mossi unicamente dalla logica degli scontri tra fazioni, se si valutano gli spettacoli avendo in mente soltanto di schierarsi pro o contro questo o quel direttore, questa o quella istituzione – che è quanto avviene, mi pare, a Roma – come si può pretendere che il pubblico si aggiorni, che possa decidere liberamente cosa andare a vedere, e perché andarci, o perché farebbe meglio a restarsene a casa?
Renato Palazzi
…impossibile dirlo meglio!
Il povero Audino, intellettualmente onesto,ha solo scritto una innocentissima recensione, niente di così eclatante da indurre la reazione piccata di PALAZZI e Co. Ma soprattutto trovo assurdo che un critico faccia una difesa d’ufficio a Latella ed a tutta una schiera di teatranti che non sanno fare altro che restare alla finestra come tanti pupazzi incapaci di proferire verbo. Ma diciamo invece come stanno realmente le cose, il bravo Audino ha commesso un imperdonabile errore: è andato contro la lobby SINIBALDI BANDETTINI CALBI etc etc… Sono loro che dicono se è giusto o meno stare all’Argentina, sono loro che dicono se è giusto occupare il Valle, sono loro con PONTE DA PINO che sono addirittura in commissione prosa, sono loro che dicono se è giusto o meno che il mibact dia un contributo a tizio questo piuttosto che a caio. E sono sempre loro che la sera rimboccano le coperte a Latella ed a buona parte del teatro italiano. Dio mio che tristezza.
ccidere il pubblico si!!!Allontanarlo, si! Soltanto voi sapete la verità! Siete i nazisti del sapere! Incapaci di essere artisti vi illudete di diventarlo nel momento in cui scrivete la recensione di qualcosa che vi ha eccitato(forse) la mente, perchè voi avete e siete cultura. Voi avete letto i libri, siete colti.. Il teatro tradizionale invece è merda per i poveri ignoranti. Uccidete il pubblico forza! presto il vostro sogno si realizzerà e potrete cosi rimanere sul palco con i vostri artisti preferiti e la platea vuota, vuota come la vostra anima.
Se si aprisse una discussione vera tra i critici teatrali credo che farebbe bene a tutto il teatro.
Trovo interessante quanto scritto da Palazzi, ma non mi piace pensare ad un pubblico da ammaestrare ad altre forme di linguaggi teatrali più contemporanei o sperimentali, neppure credo che il teatro possa dividersi ancora in distinzioni di stili.
Il teatro è sempre contemporaneo quando sa esprimere qualcosa a prescindere dal linguaggio che sceglie di utilizzare.
Il giudizio sullo spettacolo non deve limitarsi alla sola distinzione tra l’essere piaciuto o non piaciuto, se accettato o meno dal pubblico. L’efficacia, chiedo perdono per il termine usato, si raggiunge con il coinvolgimento e le reazioni che ha generato la messa in scena. Alcuni spettacoli ci fanno incazzare o reagire male, li giudichiamo a caldo brutti, ma invece a volte hanno saputo colpire la nostra critica più profonda, il nostro animo.
Collocare gli spettacoli in un teatro piuttosto che in un altro per un orientamento degli abbonati è davvero roba vecchia, se una signora in pelliccia di vecchio visone, assiste ad un De Filippo allestito in modo meno convenzionalmente storico ed esce dalla sala un po’ smarrita,va benissimo; non credo che il partecipare ad una replica serale debba rasserenare a tal punto da indurci a dormire bene la notte, ma piuttosto riuscire a provocarci un moto emotivo e di pensiero lungo la strada fino a raggiungere casa.
Pardon, ho scritto ammaestrare anziché addestrare
Da tempo ci si augura che Il tema sul quale Palazzi ed Audino hanno colto l’occasione di confrontarsi divenga oggetto di riflessione generale da parte di chi ama il teatro.La sperimentazione ha fatto il suo ingresso negli spazi teatrali di serie A anche grazie all’ala protettrice di una critica interessata alle esperienze del teatro di regia, che ha offerto ed offre maggiori opportunità di analisi intellettuale e che attraverso i segni del presente consegna nuovo fuoco ed infinite prospettive ad una scena affidata un tempo all’autore, ad un realismo forse sempre più appannato ed alla fascinazione degli interpreti.Questa ricerca non è mai sembrata esaurirsi nella forma quando a condurla sono stati i registi-attori:Leo De Berardinis,Carmelo Bene,Cecchi etc…ma oggi ,occorre dire ,che il sopravvento della ricerca formale sottrae talmente spazio al contenuto al punto da farci addirittura interrogare sull’opportunità di quest’ultimo.Ammetto un sincero spaesamento in proposito.Pur nelle continue sorprese che il rinnovamento della scena regala,il dubbio che il pubblico possa essersi adattato per conformismo ad un teatro in cui è invitato ad apprezzare in primis le soluzioni estetiche e da cui riceve al massimo suggestioni e choc emotivi tramite gli effetti spettacolari esiste e ,se così fosse, non renderebbe merito agli sforzi messi in campo.Ma ancora più grave sarebbe se gli artisti stessi smarrissero l’autenticità di una libera espressione dovendo obbligatoriamente allinearsi al”lo famo strano”a cui accennava Audino. Queste domande infine sembrano addirittura inutili ed oziose se si pensa poi che a dirigere le scelte culturali del paese è solo un gruppo di pochissime persone che non debbono neanche porsele.Ciò nonostante ci auguriamo che la parola dell’autore possa ancora avere un momento di ascolto,che l’immenso potenziale di crescita culturale che il teatro può esercitare non venga perduto e il bisogno naturale e fortissimo di teatro da parte del pubblico possa essere sfruttato per favorire la formazione di persone libere e nella condizione di scegliere .Marina Confalone .
ma vi rendete conto di quanto siete tutti e due prolissi? SINTESI signori! discussione noiosa e teorica. pippe mentali. guerra dei bottoni.
Teatro muore per gente polverosa come voi.
“Fedeltà al testo, rispetto dell’autorialità, sottomissione alle regole registiche e drammaturgiche sono i dispositivi di “potere” rispetto ai quali Bene oppone la volontà di “togliere di scena” i campioni indiscussi della classicità teatrale, letteraria e poetica, attraverso una “scrittura di scena” intesa come “atto critico”, nel solco tracciato da Antonin Artaud e Oscar Wilde.” (cit.)
Latella: pfu! Non ha proprio nulla da dire, e quel poco che dice lo dice male rimasticando alcune lezioni teatrali del ‘900. Renato Palazzi: Si allinea con la tradizione quadriana: tanto peggio tanto meglio. Furore creativo di latella: piuttosto gratuito sproloquio teatrale che porta solo alla noia più completa! Latella dirigere uno Stabile: visto la mediocrità di Martone & soci in Italia, paese dell’ignoranza e della mediocrità tutto è possibile. Per ora ci sorbiamo l’impiegatuccio statale milanese in vacanza a Roma. Non c’è proprio più nulla da salvare!