She She Pop, "Testament"

I post di Renato Palazzi

Secondo appuntamento settimanale con la nuova rubrica di notizie brevi segnalazioni, curiosità teatrali curata da Renato Palazzi. Questa settimana si parla di nostalgia dell’autore, il ruolo di un grande innovatore come Antonio Latella, la “passione” di Massimo Paganelli per la sua prediletta creatura “Inequilibrio” e una domanda delle centro pistole… Provate voi a rispondere!

Ultimamente, a teatro, mi sta capitando sempre più spesso di notare le carenze di una certa drammaturgia fai-da-te. Nostalgia dell’autore? Non necessariamente. Spesso, però, la possibilità di aggrapparsi a un forte nucleo narrativo, profondamente radicato nell’immaginario comune, aiuta a trovare una strada più sicura. Bastano a volte poche parole, uno spunto, una situazione. Pensate a Testament delle She She Pop (foto), che parte da scene del Re Lear per mettere in discussione i comportamenti dei personaggi shakespeariani, arrivando a esprimere tutt’altre verità umane. Del testo originale ci sarà sì e no mezza pagina, che basta però a far da perno a tutto lo spettacolo. È un tema che andrà sicuramente approfondito: ma intanto mi sembra che sia il momento di porlo.

Con Ma Antonio Latella ha realizzato, dopo Natale in casa Cupiello e Ti regalo la mia morte, Veronika, il suo terzo spettacolo di forte impatto della stagione, forse quello che tocca più profondamente la sensibilità dello spettatore. In qualunque altro paese, un regista dotato di un talento così esuberante – magari scomodo, spesso provocatorio, ma sempre in grado di lasciare il segno, di trasmettere pensieri ed emozioni non banali – sarebbe stato chiamato già da tempo a dirigere qualche importante Teatro Nazionale. Qui dall’unico teatro mai affidato alla sua guida, il Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, nel 2010-2011 – è stato messo in condizione di andarsene quanto più in fretta possibile.

Quattro anni dopo averne lasciato la direzione artistica per raggiunti limiti di età, Massimo Paganelli non riesce a stare lontano dalla sua creatura prediletta, il festival “Inequilibrio” di Castiglioncello. Di iniziative del genere, nel corso del tempo, ne ha fatte nascere altre, ma questa è davvero un concentrato della sua filosofia, secondo la quale un festival non serve tanto a mostrare produzioni di richiamo quanto a riunire una comunità di persone che condividono gli stessi interessi e la stessa passione per il teatro, al di là delle differenze di opinione. Oltre a “Inequilibrio”, che anche senza di lui ha tenuto fede alla propria vocazione originaria, di rassegne così, in Italia, non ce n’è molte: “Primavera dei Teatri” di Castrovillari, senza dubbio, Drodesera, forse in parte i Teatri del Sacro di Lucca, e poche altre.

A cosa servono i festival? Durante tutta l’estate essi diventano uno straordinario epicentro di creatività, un osservatorio su quanto di più vivo e avanzato sta avvenendo nel mondo del teatro. Ogni anno, di questi tempi, si scoprono nuove realtà, si vedono spettacoli che dovrebbero approdare alle ribalte più importanti nei mesi successivi. Pensate che ciò accada? È ormai scontato che le loro repliche italiane si esauriscano in un paio di sere. Avete mai visto, ai festival, i direttori dei teatri, o i loro inviati? Non sanno neppure che esistono, e dove avvengono. Quel che è peggio, non leggono neppure i giornali che di quegli parlano con entusiasmo. Il risultato? Delle stagioni noiosissime, coi soliti quattro nomi, mentre i fenomeni davvero innovativi esplodono altrove.