Spie, guerre, tradimenti, amori e morte: la storia del Paese asiatico dal 1842 ai nostri giorni è al centro dell’articolato progetto teatrale portato in Italia da Londra dal Teatro dell’Elfo, che vede ora in scena la prima parte. Un “grande gioco” che ci riguarda da vicino e che soprattutto i giovani dovrebbero correre a vedere – Maria Grazia Gregori
Tutto o quasi cominciò con l’Afghanistan: terra di conflitti estremi, madre di tutte le guerre, senza pace salvo pochi momenti e alcuni disgraziati tentativi di cambiare il giro della storia. Una terra difficile, ma resa appetibile dalla posizione geografica che la pone come confine con Stati ben più importanti nello scacchiere mondiale del potere coloniale inglese o di quello economico ed egualmente espansionistico degli Usa o dell’Urss dei tempi di Breznev. Da lì, dagli intrighi spionistici, dalla corruzione, dalla corsa agli armamenti, dalle ingerenze di civiltà (e di religioni) diverse sono derivati le continue frizioni fra India e Pakistan, i talebani, l’11 settembre, la guerra in Iraq e, più recentemente, la Siria, la guerra all’Isis, i fatti di Turchia… Un “grande gioco” dice il sottotitolo di questo lavoro a più voci che si suddivide in tredici piccoli testi scritti da autori diversi: un grande affresco che da lì (dall’Afghanistan) parte e lì, pensiamo, ritorni. E Afghanistan si intitola lo spettacolo rappresentato per la prima volta nel 2009 nella sua complessità al Trycicle Theater di Londra : un vero e proprio “romanzo” polifonico, assai poco edificante, per raccontare una storia che va dal 1842 ai giorni nostri, che vede coinvolti molti Paesi e dove anche l’Italia partecipa con alcune missioni.
Quest’anno il Teatro dell’Elfo ha scelto questa inquietante lezione di storia come punta di diamante della propria stagione con l’andata in scena dei primi cinque pezzi che verranno completati il prossimo anno consegnandoci – c’è da scommetterlo – un’analisi, uno sguardo d’insieme che, come già si è potuto vedere nella prima parte, non sarà freddamente dimostrativo ma ricco di pathos, di un coinvolgimento allo stesso tempo lucido e passionale. A garantirlo è anche la scelta dei due dioscuri dell’Elfo, Elio De Capitani e Ferdinando Bruni, di firmare a quattro mani la regia di questo grande affresco: scelta azzeccatissima perché in un “gioco” così corale era necessario uno sguardo più dialettico.
I cinque pezzi (tradotti da Lucio De Capitani), alcuni più drammaticamente strutturati, altri pensati come cerniere fra i diversi periodi e le diverse situazioni, sono stati scritti da Stephen Jeffrey, Ron Hutchinson, Joy Wilkinson, Lee Blessing, David Greig: una prima giornata ideale destinata a una seconda puntata l’anno prossimo per poi rappresentarli tutti di fila nella sua interezza come accadde anche a “Angels in America” benché in quel caso l’autore era unico mentre qui il filo conduttore sembra essere la voglia di entrare a piedi giunti dentro una vicenda che mette in luce quanto di demoniaco ci sia in questa storia che ci riguarda più che mai e che, ci pare, possa anche contribuire a chiarire il senso delle grandi migrazioni di popoli di questi ultimi anni.
A dare voce a una serie di personaggi ci sono attori entusiasti che interpretano più di un ruolo da Claudia Coli a Michele Costabile, da Enzo Curcurù a Leonardo Lidi, da Michele Radice a Emilia Scarpati Fanetti, da Massimo Somaglino a Hossein Taheri (li cito tutti anche se non per tutti la qualità dell’interpretazione è identica). Grazie a loro prendono corpo in questa inquietante ballata personaggi ai più sconosciuti ma esemplari come nel colloquio, per certi versi esilarante se non fosse vero, fra il diplomatico inglese sir Mortimer Durand e Abdur Rakman emiro dell’Afghanistan per tracciare i nuovi confini del Paese; lo scontro fra il rappresentante della Cia a Islamabad Owens che tratta negli anni Ottanta con il generale Akhtar capo dello Spionaggio pakistano per fornire le armi ai capi tribù della zona, tribù che oggi sono ancora quelle. Colpisce la fuga nella notte del re riformatore dell’Afghanistan Ammamullah Kan, di sua moglie Soraya e del padre di lei, destinati a morire in esilio, lui in Svizzera lei a Roma e più tardi sepolti entrambi in patria; la morte tragica di Najibullah che tentò di governare democraticamente rendendo onore all’educazione profondamente libertaria che gli era stata data, portando a compimento il sogno di un mondo migliore e che invece fu ferito, evirato, trascinato per terra per finire sanguinante ucciso dai talebani come qui si racconta nella sua ultima, immaginaria intervista.
De Capitani e Bruni ambientano queste vicende in uno spazio (di Carlo Sala) non troppo realistico, quasi un luogo di passaggio, definito semmai da qualche carta geografica dove il ritmo è dato dalla scansione dei velari sui quali possono essere proiettati, di volta in volta, ritratti di personaggi, paesaggi, mutando a vista le città, le montagne che rappresentano senza alcun realismo, ma il filmato che documenta l’invasione sovietica del Paese e l’entrata dei cingolati a Kabul fa paura davvero. Che dire? Uno spettacolo come Afghanistan dovrebbe essere visto assolutamente dagli studenti delle superiori che nulla o poco sanno di questa storia indissolubilmente legata alla nostra vita, ma anche da chi crede di conoscere tutto dell’oggi che però è spesso figlio dell’appena ieri.
Visto all’Elfo Puccini di Milano. Repliche fino al 5 febbraio 2017. Foto ©Laila Pozzo
Afghanistan: il grande gioco
I primi cinque episodi
di Lee Blessing, David Greig, Ron Hutchinson, Stephen Jeffreys, Joy Wilkinson
traduzione Lucio De Capitani
regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani
scene e costumi Carlo Sala
Claudia Coli, Michele Costabile, Enzo Curcurù, Leonardo Lidi, Michele Radice, Emilia Scarpati Fanetti, Massimo Somaglino, Hossein Taheri
coproduzione Teatro dell’Elfo ed Emilia Romagna Teatro Fondazione
in collaborazione con Napoli Teatro Festival
The Great Game: Afghanistan è stato commissionato e prodotto dal Tricycle Theatre di Londra nell’aprile 2009