Coraggioso e raffinato il trittico contemporaneo Kylian-Inger-Forsythe del Balletto dell’Opera di Roma, sotto intensa cura ricostituente. Metodo Abbagnato – Silvia Poletti
Per una strana coincidenza tra Milano e Roma i due corpi di ballo dei rispettivi teatri lirici sfoderano in contemporanea un trittico coreografico quasi identico. Sia alla Scala che all’Opera si esegue Petite Mort di Jiri Kylian; entrambe poi puntano al Boléro, ma a Milano nella versione iconica di Maurice Béjart con Roberto Bolle ( ma non solo lui) sul tavolone rosso; mentre a Roma la partitura di Ravel fa da base musicale ad una coreografia di Johan Inger, Walking Mad. Infine, al nord una delle rare creazioni per i ballerini scaligeri vede la canadese Aszure Barton confrontarsi con Gustav Mahler; a Roma invece il confronto – da far tremare i polsi- è fra il neoaccademismo balanchiniano e il post accademismo forsythiano di Artifact Suite.
Alla resa dei conti il trittico romano risulta il più ambizioso, soprattutto visto l’attuale livello del corpo di ballo diretto da Eleonora Abbagnato. La quale evidentemente pensa che le difficoltà e le insidie stilistiche e tecniche che célano titoli così attraenti e prestigiosi servano da salutare scossa, oltre che per il pubblico, per i suoi ballerini. Nel corso della sua direzione la ballerina siciliana ha molto puntato sulla versatilità e sulla qualità coreografica dei programmi, attingendo alle conoscenze maturate all’ Opéra di Parigi, con il rischio di dare l’impressione di forzare tempi e mano nell’adattare certi titoli alle reali possibilità della compagnia. Ci vuole un lavoro lungo, costante, profondo: la strada intrapresa è certo in salita ma i risultati possono essere duraturi.
Il trittico così ha mostrato l’attuale stato – comprese luci e ombre- della compagnia, in cui spiccano alcune personalità – molti gli uomini messi in evidenza- ma che ancora manca di omogeneità. A soffrirne è stato soprattutto Petite Mort di Jiri Kylian con la sua atmosfera carnale e rarefatta, misteriosa e evocativa, in cui la calibratura tra le linee della danza classica e le contrazioni moderne descrive spasmi amorosi. Immerso in un’oscurità onirica, attraversato da veli di seta e tagliato da sibili di lame che fiorettano nell’aria, questo stupendo gioco di coppie mette in scena il mistero dell’eros e dell’eterno confronto tra maschile e femminile. Le musiche mozartiane e rigide crinoline alludono ai giochi d’amore del Secolo cortese, ma lo sguardo del maestro va oltre i vezzi del tempo: pensa ai corpi che attraverso la lingua eterna della danza e il suo divenire fluente, morbido, essenziale e evocativo descrivono l’amore sensuale in tutte le sue coloriture. Al di là da alcuni pasticci nella parte iniziale- quella in cui gli uomini armeggiano con i loro fioretti e dove l’unisono qui inesistente è invece fondamentale- a mancare è stato proprio il divenire fluente e senza soluzione di continuità del movimento, degli accenti dei gesti che toccano la musica e la rendono incredibilmente visibile.
Meglio è andata con l’estroso Johan Inger che in Walking Mad, creato nel 2001, rivelava già un talento pronto a fiorire. Una sensibilità allo stesso tempo delicata e ironica, che usa Ravel per un crescendo cadenzato da una parete mobile, che si muove, costringe, apre finestre e porte, cui ci si aggrappa con tocchi surreali. Sei uomini, tre ragazze: abiti che si mutano da colorati a bigi, cappellini rossi in cupe bombette. L’euforia si trasforma in angoscia, la tenerezza in violenza. Tutto raccontato da una dinamica inarrestabile, che scorre nei corpi e passa da uno all’altra con un continuo flusso di energie e tensioni, in una sorta di vortice in cui il personaggio che all’inizio entra in scena dalla sala viene attratto fino a restare incastrato dai meccanismi di una follia travolgente. Se ne esce solo confrontandosi con l’altro, in un anti-climax spiazzante che dopo l’invasamento di Ravel riporta alle rarefatte atmosfere di Per Alina di Arvo Part per un duetto carezzevole e acquietante. I ballerini romani sono qui più liberi e generosi, l’energia dilaga e vibra, l’abbandono giova alla resa.
Con Artifact Suite la cattedrale accademica, seppure rivista dal genio “decostruttore” di William Forsythe, si erge imponente nel numero dei ballerini del ‘corpo di ballo’ che eseguono sequenze canoniche della lezione tipo e gli inconfondibili gesti con le mani che aprivano Steptext, quartetto da cui tutto è cominciato ( a proposito: bello e giusto l’omaggio della serata a Elisabetta Terabust -creatrice di Steptext- mancata un mese fa, che proprio a Roma iniziò la sua grande carriera). Canoni, linee che diventano sinusoidi, e poi si riconnettono e formano losanghe. Intanto i solisti dialogano, spezzettando e moltiplicando particelle di coreografia per farne due e più duetti, o un bellissimo quintetto maschile in cui le batterie accademiche si alternano a sguisciate di bacino, a vorticare di braccia, a rubati di ritmo. L’inconfondibile oscurità di Forsythe sbalza i corpi, li rende astrali nella loro bellezza olimpica. Lo spazio si riempie di gesti che tracciano contrappunti coreografici, ipnotizzano nella loro logica ispirata. La compagnia romana esegue motivata, l’orgoglio supplisce ancora le incertezze: spicca la neo prima ballerina Susanna Salvi, con Alessio Rezza e Eugenia Brezzi la migliore in campo. Certo qui non si scappa: o si danza o si soccombe. E il metodo Abbagnato non concede sconti.
Una scena da Walking Mad di Johan Inger foto Yasuko Kageyama