E’ stato il must see della stagione musicale italiana. E anche noi ci siamo stati. Con un orecchio incantato dalla grazia di Florez e un occhio ammirato alle danze indiavolate di Schechter. –Davide Dannachini
L’Orphée et Euridice di Gluck andato in scena al Teatro alla Scala di Milano è stato senz’ altro uno degli spettacoli da non perdere degli ultimi tempi, come ha confermato anche il grande successo di pubblico, calorosissimo ancora all’ultima recita.
I motivi erano diversi: innanzi tutto l’interesse della versione francese, che Gluck approntò nel 1774 per Parigi – a dodici anni dalla prima edizione viennese – trasformandola in alcune componenti fondamentali, la presenza di un fuoriclasse quale Juan Diego Florez per il ruolo principale, un direttore in luminosa ascesa come Michele Mariotti e uno spettacolo (proveniente dalla Royal Opera House di Londra) di particolare impatto visivo.
Un classico come l’Orfeo trova nella versione francese una cifra ancora più raffinata e struggente, grazie innanzi tutto al canto del protagonista, che da mezzosoprano (in origine un castrato) passa qui a tenore di tessitura molto acuta (haute-contre veniva chiamato a Parigi), con il risultato di colorare le invocazioni del mitico cantore di una tensione straziata e quanto mai toccante. Rispetto alla compostezza, intensa e statuaria, della versione viennese Orfeo acquista quindi un rilievo più teso e agitato, portato ad esprimersi anche attraverso il virtuosismo, con l’aggiunta di un’aria acrobatica alla fine del primo atto che, insieme a certe modifiche nell’ orchestrazione, ad alcune nuove pagine e ad un ampliamento dei ballabili, fa di questa versione (per la prima volta rappresentata alla Scala) un capolavoro assoluto.
Il perché della sua limitata circuitazione sta proprio nella difficoltà di reperire un tenore in grado di sostenere una tessitura acutissima e sfiancante, conservando al tempo stesso la purezza del suono e l’intensità della parola. Dai tempi di Nicolai Gedda forse nessun tenore è stato in grado di far fronte a questa impresa come Juan Diego Florez, che con questo Orphée ha mantenuto fede alla sua eccezionale statura di artista, guadagnata soprattutto in campo rossiniano. Il suo canto, così limpido, vibrante e raffinato, è riuscito a conservare una miracolosa naturalezza e purezza di legato anche nelle frasi più improbe, in cui molti altri tenori avrebbero rischiato di impiccarsi, tanto da evocare veramente quello celestiale del fanciullo mitologico capace di far piangere persino le pietre. Ma al tempo stesso mai avevamo trovato in Florez un interprete così intenso e toccante, oltre che così appassionato e sensibile sulla scena. Una prestazione indimenticabile, a sigillo della piena maturità di un artista che nel continuare a stupire riesce a far vibrare le corde della commozione.
Al suo fianco si sono fatte ammirare sia l’Euridice delicata e al tempo stesso incisiva di Christiane Karg sia l’Amour piccante e seducente di Fatma Said, sotto la bacchetta di Michele Mariotti, che ancora una volta ha dato prova di una solidità direttoriale ammirevole, nell’ ottenere dall’orchestra scaligera una bellezza e un’intensità di suono incantevoli, all ’interno di una lettura di prevalente lirismo e abbandono contemplativo. Eccellente esecuzione musicale – a cui ha dato il suo contributo il coro preparato da Bruno Casoni – che ha giocato anche sulla scelta registica di spostare l’orchestra in scena, su una pedana mobile da cui il suono si espandeva ad altezze diverse, come ad evocare gli abissi degli Inferi o la levità dei Campi Elisi.
Uno spettacolo, quello londinese a firma di Hofesh Schechter e John Fulljames, giocato su pochissimi elementi scenici e abiti moderni di Conor Murphy quanto sulle fondamentali luci di Lee Curran (riprese da Andrea Giretti) ma in grado di suggerire molto e soprattutto di far parlare la musica, protagonista assoluta di questa edizione. Una messinscena di grande linearità e di indubbia suggestione, in cui hanno fatto la parte del leone le coreografie dello stesso regista, affidate alla travolgente Hofesh Schechter Company, giustamente indiavolatissima quanto le Furie che popolano l’Averno in cui si avventura lo sconsolato Orphée.
Successo entusiasta per i danzatori, applausi per tutti e ovazioni quanto mai meritate per Florez, a sigla di uno spettacolo memorabile.
Visto al Teatro alla Scala il 17 marzo 2018
foto Brescia/Amisano cortesia Teatro alla Scala