Gli anni passano per tutti e la “terra promessa” cambia i suoi confini ma la maestria e l’intimo divertimento che Moni Ovadia mostra in scena quando maneggia l’amato impasto di cultura yiddish e musica klezmer non perdono di smalto e sono ancora capaci di sorprendere ed emozionare – Maria Grazia Gregori
Nel buio del palcoscenico si intravvedono sullo sfondo delle figure, quasi fossero un cartone dipinto d’antan. Davanti a loro delle piccole sedie e – intuiamo – dei bagagli e dei vestiti ammassati per terra. All’improvviso, dal fondo della sala, la musica si mescola a delle voci: è gente che arriva da fuori, alle spalle degli spettatori guidati da piccole luci fino a quando salgono sul palco del Teatro Grassi e si alza un suono accompagnato da una voce che ben conosciamo: è Moni Ovadia, che torna qui portando con sé quel mondo che lo ha fatto conoscere fin dai tempi del meraviglioso Oylem Goylem, con i canti dell’esilio e di un popolo alla ricerca di se stesso. Ma fin dall’inizio intuiamo – lo sapevamo già – che lui, il cantore scanzonato e ribelle, tragico e inquieto di chi cerca ancora un suo posto al mondo, non è più lo stesso. Non è tanto colpa degli anni che passano, di tante speranze che svaniscono ma è proprio lui che orgogliosamente dichiara di fare parte per se stesso malgrado il titolo scanzonato dello spettacolo Dio ride. Nish Koshe. E quello che ci dice iniziando lo spettacolo non ci fa proprio ridere e , scusate la libertà, penso, che non faccia ridere neppure Dio.
Come si fa – si chiede papale papale – a ridere, a vivere con fiducia in un mondo come quello che noi viviamo dove trionfano ovunque muri che ci dividono gli uni dagli altri? Ci sono troppi muri, dice Ovadia, e forse non esiste neppure la terra promessa. Lo sapevano bene gli ebrei che hanno conosciuto la diaspora, che spesso non si sentono di casa da nessuna parte perché la loro vita è segnata dall’esilio. E ,forse, lo pensano anche alcuni ebrei di oggi.
Ma accanto a questi temi amari ci sono i giochi di parole, i doppi sensi, lo spirito ebraico che sa giocare come pochi con le disgrazie e i difetti di un popolo e con le sue delusioni ma altrettanto sa, con leggerezza, chiedersi: che dire della terra promessa? Ecco allora i fantastici rabbini, smagati e privi di illusioni, che Moni ci ha raccontato, il sapere inventare delle storie – piccoli capolavori dello spirito ebraico – che anche con l’aiuto di parole di grandi pensatori e scrittori dicono delle grosse verità. Perché Dio ride sì, ma “nish Koshe”, “cosi così”. È un Dio “tosto” che non le manda a dire; e a chi gli chiede perché parli in yiddish e non in ebraico risponde di preferire la prima lingua perché l’altra gli pare più metallica, militare. E ci si chiede come è cambiata questa terra promessa nostra circondata da muri quando invece ci sarebbe bisogno di giustizia e di pace. E per renderci più chiaro quello che vuol dire, dopo tanto yiddish, dopo tante canzoni eseguite con il suo formidabile complesso di un tempo, indossa la kefiah e canta una canzone araba nel silenzio della sala sorpresa.
Insomma, Moni ci vuole dire qual è la terra promessa che sogna, il mondo che vorrebbe di cui parla da anni e che, magari, non tutti condividono con lui, come ben si sa. Certo lui è sempre Moni Ovadia con lo stesso spirito, l’ironia divertita, il prendere le persone in contropiede. Felice quando accompagna con il corpo la scatenata ma anche triste musica Klezmer che imbeve questo spettacolo. Certo la sua voce è più roca, gli anni passano, ma lascia sempre un segno. Anche noi che lo ascoltiamo non siamo più gli stessi.
Visto al Piccolo Teatro “Paolo Grassi” di Milano. Repliche fino al 14 ottobre 2018. Foto di Umberto Favretto
Dio ride
Nish Koshe
di e con Moni Ovadia
e con le musiche dal vivo della Moni Ovadia Stage Orchestra: Maurizio Dehò, Luca Garlaschelli, Albert Florian Mihai, Paolo Rocca, Marian Serban
luci Cesare Agoni, Sergio Martinelli
scene, costumi ed elaborazione immagini Elisa Savi, progetto audio Mauro Pagiaro
regia Moni Ovadia
produzione CTB Centro Teatrale Bresciano e Corvino Produzioni