L’edizione 2018 del Festival Verdi ha fatto leva soprattutto sui recuperi “alternativi” di due famosi melodrammi verdiani: il “Macbeth” e “Le Trouvère”, versione francese del 1857 del celeberrimo Trovatore – Davide Annachini
L’edizione 2018 del Festival Verdi di Parma ha fatto leva soprattutto sui recuperi “alternativi” di due famosi melodrammi verdiani, il Macbeth nell’originale edizione fiorentina del 1847 e Le Trouvère, versione francese del 1857 del celeberrimo Trovatore. Confezionato a misura per le pretese dell’Opéra di Parigi, dove in quegli anni Verdi aveva messo in scena Les Vȇpres siciliennes, Le Trouvère si presentava più o meno come il gemello francese del Trovatore nato quattro anni prima al Teatro Apollo di Roma (fatta eccezione per la tassativa concessione al gusto grand-opéra dei ballabili), a differenza del Macbeth fiorentino, che nella matura revisione del 1865 – realizzata ancora per Parigi – avrebbe invece trovato la sua definitiva e più conosciuta versione. In questo ideale fil rouge verdiano tra l’Italia e Parigi, le due edizioni si sono proposte non solo come momento di approfondimento musicologico ma anche come occasione di spettacolo, in particolare nel caso del Trouvère.
La scelta di tornare nella splendida cornice del Teatro Farnese dopo il successo dello Stiffelio dell’anno scorso (che ha fatto guadagnare onori e gloria al Festival Verdi, a partire dal Premio Abbiati) c di affidare la regia ad un esteta della messinscena quale Robert Wilson costituiva già di per sé una forte motivazione per non mancare l’occasione. Occasione che, al di là dell’indubbio interesse musicale, si è rivelata esclusiva e raffinatissima, anche se intuibilmente esposta a dividere i gusti del pubblico.
La cifra di un regista come Wilson, si sa, è nota per lo stile astratto, distaccato e profondamente formale che contraddistingue tutti i suoi spettacoli. Quindi anche questo Trouvère poteva prestare il fianco a un déjà vu e – in particolare a Parma – a un Verdi non esattamente nostrano. Ma proprio per il fatto di recuperare un Verdi quasi inedito e addirittura sofisticato, per lo stile dichiaratamente allineato al gusto francese che nulla toglie alla bellezza della musica e all’eleganza del libretto (in cui la traduzione di Emilien Pacini sembra talvolta nobilitare il verace testo originale di Cammarano), la scelta di un regista come Wilson poteva rivelarsi quanto mai intonata. E difatti il suo spettacolo, come sempre minimalista nelle scene e magico nelle luci (dello stesso Wilson), ha trasportato l’opera in una dimensione onirica, sospesa, astratta, in cui i protagonisti non facevano trasparire emozioni nella loro perenne rigidità ieratica e nel loro look atemporale, caratterizzato dai costumi stilizzati e bellissimi di Julia von Leliwa e dal trucco spettrale di Manu Halligan. Senza dubbio un altro mondo rispetto al Medioevo tutto fuoco e passione del Trovatore di tradizione, in grado però di creare misteriosamente un meraviglioso dialogo con la musica, che sembrava esaltare in questa messinscena purissima e apparentemente asettica tutto l’incanto estatico e la forza sentimentale dell’opera. E anche se potevano sollevare qualche perplessità certe soluzioni al limite del grottesco – come il decrepito ma arzillo Verdi seduto perennemente in scena o l’Azucena senjor dal sottanone a campana che scorrazzava con la carrozzina bruciata del pargoletto arso per sbaglio, per non dire dell’ossessiva moltiplicazione di pugili impegnati in una lotta senza fine con cui erano risolti i ballabili – lo spettacolo ha conservato dall’inizio alla fine una coerenza e una sintonia perfetta con l’esecuzione musicale.
Qui abbiamo trovato un Roberto Abbado quanto mai ricercato nelle sonorità e nella limpidezza della resa strumentale – affidata all’ottima Orchestra del Teatro Comunale di Bologna in coppia con il coro preparato da Andrea Faidutti –, dagli arcani effetti di crescendo agli elegantissimi accompagnamenti delle arie. Una lettura, la sua, volutamente controllata e misurata, che nello sposare in toto l’impostazione registica, invece che raggelare la musica di Verdi ne ha sviscerato tutta l’intensità interiore, spesso offuscata da interpretazioni fin troppo sanguigne e melodrammatiche e mai come in questo caso esaltata invece in tutto il suo luminoso lirismo.
Anche il cast ha risposto in perfetta coerenza con questa linea interpretativa, a partire dalla Léonore lunare e suggestiva (soprattutto nella purezza del legato e dei pianissimi in acuto) di Roberta Mantegna e dalla intensa e nobilissima Azucena di Nino Surguladze per arrivare al Manrique di bella linea vocale dello svettante Giuseppe Gipali, al Comte de Luna incisivo e vibrante di Franco Vassallo, al profondo e statuario Fernand di Marco Spotti.
Successo vivissimo di pubblico, presente nella platea esclusiva e quasi sacrale del monumentale Teatro Farnese, già di per sé evento nell’evento.
Visto al Verdi Festival di Parma il 14 ottobre. Foto di Lucie Jansch
LE TROUVÈRE
Opera in quattro atti su libretto di Salvadore Cammarano
Traduzione francese di Émilien Pacini
Musica
GIUSEPPE VERDI
Edizione critica a cura di David Lawton, eseguita in prima assoluta.
The University of Chicago Press, Chicago e Casa Ricordi, Milano
Manrique, le Trouvère GIUSEPPE GIPALI
Le Comte de Luna FRANCO VASSALLO
Fernand MARCO SPOTTI
Ruiz LUCA CASALIN
Léonore ROBERTA MANTEGNA
Azucena, la Bohémienne NINO SURGULADZE
Inès TONIA LANGELLA
Un Bohémien NICOLÒ DONINI
Un messager LUCA CASALIN
Maestro concertatore e direttore ROBERTO ABBADO
Ideazione, regia, scene e luci ROBERT WILSON
Co-regia NICOLA PANZER
Collaboratore alle scene STEPHANIE ENGELN
Collaboratore alle luci SOLOMON WEISBARD
Costumi JULIA VON LELIWA
Make-up design MANU HALLIGAN
Assistente alla regia GIOVANNI FIRPO
Video design TOMEK JEZIORSKI
Drammaturgia JOSÉ ENRIQUE MACIÁN
Maestro del coro ANDREA FAIDUTTI
ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO COMUNALE DI BOLOGNA
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma
In coproduzione con Fondazione Teatro Comunale di Bologna, Change Performing Arts