Creato nel 2015 per il Royal Ballet e Alessandra Ferri, pluripremiato ai premi teatrali inglesi, filmato per il live streaming della Royal Opera House, è arrivato anche in Italia Woolf Works di Wayne McGregor. Una grande occasione per il Ballo e il Teatro scaligero per presentare un lavoro contemporaneo e allo stesso tempo rispettoso della tradizione, con una lezione interpretativa, quella della Ferri, da manuale. –Silvia Poletti
Il Teatro alla Scala si è garantito, grazie ad Alessandra Ferri che ne è stata pluripremiata protagonista fin dalla creazione, la prima nazionale del trittico/lavoro a serata che Wayne McGregor ha dedicato al mondo di Virginia Woolf, Woolf Works.
Lo spettacolo era stato realizzato nel 2015 al Royal Ballet con un cast stellare il cui vertice era appunto la Ferri, iconica presenza nel ruolo apparentemente accennato eppure pregnante di intensità emotiva della protagonista ( una Virginia che si fonde nella sua Mrs Dalloway e poi torna ad essere ancora lei nell’ultimo struggente segmento dello spettacolo): proprio grazie a questo incontro artistico, con un autore per altro antipodico alla natura drammatica e teatrale della stella milanese, la nuova carriera della ballerina ha ripreso prepotentemente slancio ed è nato un sodalizio creativo che in quattro anni ha generato altre due lavori di successo ( soprattutto AfteRite su Le Sacre du Printemps per l’American Ballet Theatre).
Al di là di questo felice connubio, Woolf Works è un lavoro importante proprio perché Wayne McGregor si inoltra nelle pieghe dell’azione, delle relazioni personali, nel tratteggio psicologico – qui particolarmente impegnativo- seguendo da un lato la sfida di tradurre in pensiero coreografico l’innovativa concezione poetica della scrittrice ( il flusso di coscienza, l’innovativa scelta lessicale, il ritmo e lo scarto temporale), dall’altro cercando di dare sostanza ai personaggi e ai loro travagli, provando modalità nuove per una nuova tipologia di dance drama.
Perlustratore del rapporto tra scienze cognitive e resa muscolare, traduzione corporale di ogni elaborazione neurologica ( come attesta tra l’altro il suo folgorante Autobiography premio Danza & Danza 2018, in questi stessi giorni in tour italiano con i suoi ballerini), McGregor si era già avvicinato alla drammaturgia con Raven Girl, con risultati però contrastati.
Nel caso di Woolf Works è invece evidente uno scarto in avanti, seppure il trittico/lavoro a serata ha tre approcci diversi a seconda del lavoro che Wayne, insieme alla sapiente drammaturga Uzma Hameed, decide di affrontare.
Così in I Now/I Then che apre la serata, dopo che la voce della stessa Woolf ha risuonato nella sala echeggiando la propria idea di nuove modalità di scrittura per raccontare la bellezza della verità, McGregor parte da Mrs Dalloway, dal suo indaffararsi per l’ennesimo futile party e dall’invasione di pensieri, e ricordi, e immagini che affollano la sua mente – e il suo cuore. La Ferri, nelle tenui vesti di Clarissa/Virginia è il fulcro di un intrecciarsi di relazioni, episodi, rimembranze, pesantezze presenti e nostalgie antiche: per descriverle Wayne ripercorre stilemi già noti -come lo sdoppiamento del personaggio, l’interpolazione dei passi e gli intrecci -duetti che diventano terzetti e quartetti- che rievocano appunto il presente e il passato. E’ il linguaggio, ovviamente, che ha un respiro diverso-plastico, fluido, atletico, con gli slanci giovanili di Clarissa ragazza (una svettante Caterina Bianchi) – che si contrappongono agli abbandoni malinconici e consapevoli dell’adulta nel rimembrare il bacio dato con improvvisa allegria all’amica Sally.
Tre grandi cornici roteanti, uomini di oggi e di ieri che si appalesano nella mente di Clarissa -e a contrasto- l’insopportabile sopravvivenza al dolore e all’orrore della vita del reduce Septimius ( Timofeij Andrijashenko), alter ego della donna e presago, con il suo suicidio, del destino di Virginia: il quadro che McGregor gli destina è potente e drammatico, a tratti emozionante.
Affascina, fin da questo tassello, la capacità dell’autore di mantenere la propria visione creativa pur entrando consapevolmente nel mainstream della coreografia drammatica moderna i cui riferimenti sono riconoscibili; e affascina come poi proceda per la propria chiave interpretativa in Tuesday, l’ultima parte della serata, ispirata a The Waves.
Ancora una volta la Ferri giganteggia con la sua presenza minuta, le magnifiche e intatte linee, lo sguardo espressivo, diventando il fulcro drammatico della coreografia-dominata da un bellissimo film in bianco e nero, che registra l’implacabile andamento delle onde. Introdotto dalla lettera d’addio che la Woolf scrisse al marito prima di buttarsi nelle acque di un fiume, il lavoro è chiaramente legato a quel momento -spirituale e psicologico-: l’attimo della risoluzione e dell’abbandono della vita. Così i danzatori in un fluire a un tempo morbido e rigoroso assumono l’andamento fluttuante delle acque che lentamente sospendono, innalzano e poi affondano la protagonista, eppure la avvolgono e proteggono. Delicato, toccante, intimo seppure sviluppato nell’inconfondibile movimento organico del coreografo.
Il quale riserva alla parte centrale, Becoming ispirata a Orlando e ai suoi attraversamenti di tempo e di genere la parte più squisitamente ‘alla McGregor’. Il romanzo diventa infatti solo un pretesto per venti minuti di danza poderosa, tripartita ( a ribadire l’uno e trino- tra maschile e femminile- che domina il racconto): monadica nell’armoniosa dinamica di insiemi che emerge dall’oscurità e dalla nebbia, attraversa saettante il tempo -barrato dai laser dello splendido disegno luci della fedele Lucy Carter– e nel possente fluire di energia che scivola dalle braccia, saetta nei busti, svirgola nelle anche. Alcuni accenni barocchi delle mani e delle braccia per evocare l’ambientazione iniziale del romanzo e i temi della Follia ripensati da Max Richter, autore della bella e funzionale partitura musicale dell’intero spettacolo: c’è poco altro per riallacciarsi alle atmosfere di Orlando. Qui McGregor opta per esplorare la percezione della tensione, dell’energia e della velocità – un virtuosistico divertissement che si incunea e sospende la tensione drammatica- e che all’inizio aveva la sua ragion d’essere in uno squadrone di fuoriclasse capeggiati dalla supersonica Osipova.
I danzatori della Scala, i primi ballerini e solisti tutti schierati nei vari momenti del balletto- non abituati al duro ed esigente stile di McGregor vi si applicano con zelo e entusiasmo: se manca ancora l’attacco e la velocità -soprattutto nell’arduo ‘Becoming’- si percepisce che la strada è iniziata e andrà sempre meglio. Perché è proprio nel suo complesso che Woolf Works ha una sua rilevanza: proprio perché dimostra come si possa presentare un lavoro davvero contemporaneo nell’estetica, nella visione, nell’apporto musicale, scintillante di creatività e comunque perfettamente calato nel mainstream, doveroso per una grande compagnia di tradizione. Caloroso successo dunque alla prima, con acclamazioni per Alessandra Ferri i e Federico Bonelli, principal italiano del Royal Ballet che l’ha accompagnata nel balletto con autorevole, discreta e tenera presenza, e applausi convinti al Ballo milanese, dove si sono messi in evidenza particolare Virna Toppi e Christian Fagetti.
Visto al Teatro alla Scala il 7 aprile 2019
repliche 12,13,14 20 aprile
foto di Brescia Amisano, in copertina una scena da Tuesday