Giunto al 24.mo anno di vita, il Festival delle colline torinesi è cominciato con il grande successo di “Gioia” di Pippo Delbono. Ecco cos’altro abbiamo visto – Maria Grazia Gregori
Giunto al suo ventiquattresimo anno di vita – una gran bella età – il Festival delle colline torinesi, che si tiene a macchia di leopardo in luoghi deputati – ma anche inaspettati – della città dopo avere iniziato con il grande successo di Gioia di Pippo Delbono di cui si è già scritto in occasione della sua presenza milanese, affronta in questa prima parte del suo tragitto argomenti e linguaggi diversi: dal grande tema della solitudine e della incapacità psicologica, fisica di comunicare anche con le persone che sono più vicine, alla ricerca quasi ossessiva delle proprie radici apparentemente dimenticate ma vivissime dentro il cuore, il sangue della protagonista.
Something about you, sottotitolato Quel che rimane, racconta la perdita di se stessa di una donna che non riesce neppure ad avere un rapporto con i suoi figli, chiusa al mondo in un rituale ritmato dalle medicine. È un testo che nasce da uno dei diari di donne che hanno voluto lasciare la propria testimonianza all’Archivio Documentario Nazionale di Pieve Santo Stefano, elaborato da Francesca Garolla e messo in scena da Alba Maria Porto. Il tema di questa solitudine, di questa malattia, che tocca da vicino molte persone, ha per protagonista una madre che ha vissuto all’interno di un luogo protetto un’ esperienza di autoesclusione dalla vita alla quale tentano di dare una svolta i figli, del tutto incapaci, come spesso succede in questi casi, di spingerla a superare la sua solitudine, la sua silenziosa disperazione rotta di tanto in tanto dal nome e dal ricordo di una donna come lei, l’unica con la quale riuscisse ad avere un rapporto. Quando i figli si decidono a portarla all’incontro con questa donna, lei si è suicidata. E questo suicidio terribile, quasi in diretta, questo corpo che si sfascia quando tocca la terra ha un effetto taumaturgico sulla vecchia signora.
Confesso che mi sarebbe piaciuto leggere il testo nella sua immediatezza, scritto proprio da chi ha vissuto questo dramma ma anche così, elaborato da Francesca Garolla, ha una sua forza grazie anche all’interpretazione della brava Matilde Vigna, che è la madre, e di Mauro Bernardi e Roberta Lanave che sono i figli.
Libya Back Home è un flusso di memorie, raccontate, vissute mescolando alle parole, ai ricordi, le immagini di una Libia (o Lybia) di un tempo – le belle costruzioni bianche, le lunghe promenades, ma anche le crudeltà degli occupanti italiani, le impiccagioni e poi la lunga dittatura di Gheddafi, fino ad arrivare al nostro oggi, alla guerra che contrappone libici a libici, fratelli a fratelli. Tutta nasce da una ragazza che ha i capelli arricciati e un po’ crespi come sua nonna, una donna libica la cui figlia (che si stirava i capelli) ha sposato un italiano e dalla volontà della protagonista, alla quale non bastano più i racconti del padre, le belle fotografie di un tempo, che è come ossessionata dal desiderio di andare a visitare quel paese, a ricercare i suoi parenti. La richiesta del visto è inutile, nessuno riesce a farglielo avere anche se la nostra testarda ragazza è riuscita a intrecciare un rapporto con una persona di là, forse un suo lontano parente. Rapporto che poi si interrompe e non sappiamo se ancora oggi lo sia.
La protagonista Miriam Selima Fieno direi che non racconta, ma vive questa storia che porta anche la firma dell’uomo che poi non le risponde più, Khalifa Abo Khraisse. È una storia non conclusa, commovente, che ci sprofonda in una realtà che ci è difficile comprendere fino in fondo.
Del tutto un altro mondo è quello che sta alla base di Commedia con schianto… Struttura di un fallimento tragico di Liv Ferracchiati che ne è anche la regista. Sottotitolo (questo è mio) “storia di uno spettacolo che non s’ha da fare”, un intreccio ironico fra realtà e finzione, risibile storia di un autore che non sa come districarsi per scrivere un testo nuovo dove la realtà – cioè quel che succede – sembra avere ragione della fantasia. In quest’intreccio a volte ironico, a volte stucchevole, il nostro autore che non riesce ad andare oltre la riga 17 del nuovo testo si lascia vincere dai ricordi intrecciando storie di un vecchio amore a quello nuovo incontrato a un convegno internazionale di drammaturgia contemporanea. La scappatoia che sceglie, cercando di trovare l’ispirazione, è quella di scrivere un testo – come dire – sul campo, sfruttando anche le esperienze e le riflessioni degli attori. A questo proposito si scomodano anche i greci fra stasimi ed episodi e addirittura Aristofane che vaticina in greco. Prodotto dallo Stabile dell’Umbria e presentato come “lo smarrimento di una generazione senza padri” (quella under 35 come qui si dice) in cerca, pensiamo, di un proprio linguaggio e di un proprio esserci nelle cose, lo spettacolo resta, per me, come un punto interrogativo, un divertissement, forse.