Veni vidi vici. Giulio Cesare torna e conquista la Scala

E’ stato il vero grande successo della stagione scaligera ormai conclusa. E una scommessa vinta per Alexander Pereira, in partenza per Firenze. Il barocco è vivo. E lo dimostra anche una grande messa in scena di Robert Carsen.– Davide Annachini

Giunto ormai a conclusione di stagione e della gestione di Alexander Pereira (prossimo ad assumere la direzione del Maggio Musicale Fiorentino), il Teatro alla Scala ha tirato fuori il suo asso dalla manica con un’edizione del Giulio Cesare in Egitto di Händel destinata a rimanere nella memoria come uno degli spettacoli più riusciti degli ultimi tempi. Il successo caldissimo e la grande affluenza di pubblico – praticamente un sold-out ad ogni recita – ha giustamente premiato la qualità assoluta della produzione e il felice ritorno di un’opera che, perla tra le perle del sommo musicista tedesco, pur rimanendo costantemente in repertorio in area anglosassone in Italia è pochissimo rappresentata, tanto che alla Scala era andata in scena un’unica volta, nel lontano 1956.

Partitura monumentale e bellissima, costituita da una sequela di arie difficilissime e magnifiche per ispirazione e suggestione, Giulio Cesare tocca tutti i versanti dell’opera seria – dalla tragedia al lirismo, dal furore al patetismo – spaziando con metamorfosi ineffabile nell’ironia, nella sensualità, nella malizia, nella fastosità, in quella contaminazione di generi di tipica cifra barocca.

Di questo ha tenuto ben conto un regista come Robert Carsen, forse il più intelligente tra gli attuali interpreti della scena lirica, per il fatto di dimostrare come nell’attualizzare un testo di per sé già modernissimo non servano stravolgimenti fumosi e bizzarri – finalizzati a compiacere più il narcisismo del metteur en scéne e del suo entourage di fedelissimi che l’autore e l’opera – quanto idee, gusto e cultura, soprattutto musicale. Per ambientare le vicende amorose di Cesare e Cleopatra, come la sete di vendetta di Cornelia e Sesto nei confronti di Tolomeo, barbaro uccisore del loro Pompeo, Carsen ha trasportato il soggetto in un conflitto contemporaneo di area mediorientale, dove il potere ma anche l’amore si combattono per fini economici, come i bidoni di petrolio che suggellavano il lieto fine sembravano sottintendere. Ma è stata soprattutto la caratterizzazione psicologica dei personaggi a colpire: Cesare come un gerarca in mimetica pronto tanto alla guerra che all’ amore, Cleopatra come l’abile seduttrice ma anche come la donna capace di combattere e di vincere tutte le battaglie, suo fratello Tolomeo come l’integralista senza pietà e rispetto per le donne, schiavizzate nel suo harem con la bocca incerottata o oltraggiate, come nel caso di Cornelia, nobile vedova di Pompeo, la cui morte il giovane figlio Sesto cercherà di vendicare, tra impotente animosità e soffocato rimpianto. Certe scene poi si sono imposte per ironia e seduzione visiva, come il film in bianco e nero sulle “Dive del Nilo”, proiezione riservata al solo Cesare, in cui tra le celebri Cleopatre di celluloide (Claudette Colbert, Vivien Leigh, Liz Taylor) emergeva quella autentica, oppure quando la regina d’Egitto si esibiva nella sua acrobatica aria di bravura immersa in una vasca d’oro colma di latte. In questa regia (scene e costumi di Gideon Davey, coreografia di Rebecca Howell, luci di Peter van Praet e dello stesso Carsen) anche le soluzioni più originali non sono risultate mai gratuite ma hanno trovato una collocazione assolutamente logica nell’arco di una lettura che, invece di confondere un’opera già così densa di colpi di scena e di intrecci drammaturgici, riusciva ad esplicitarla meravigliosamente, rendendo le quattro ore di spettacolo un’esperienza teatrale avvincente, soprattutto perché strettamente giocata sulla musica.

E, nonostante la presenza di alcune star del repertorio barocco, la loro bravura non sarebbe bastata a determinare il successo dell’esecuzione se non vi fosse stato l’intervento del regista a creare su ognuna di loro un personaggio totalmente scolpito. Così è stato ad esempio per i celebri controtenori impegnati nei ruoli principali, filologicamente utilizzati al posto dei tradizionali mezzosoprani in ricordo dei primi esecutori dell’opera, che erano per l’appunto eccelsi castrati. Anche i non addetti al repertorio barocco, superato il primo impatto con queste vocalità così fragili e artefatte, hanno ammirato la dolcezza timbrica e l’autorevolezza virtuosistica di Bejun Mehta, un Cesare eroico e al tempo stesso sentimentale, di sicuro protagonismo, o il livello di un artista della fama di Philippe Jaroussky, un Sesto combattuto e fondamentalmente velleitario, che anche in certe spigolosità vocali delle arie di furore riusciva a rendere la nevrosi del personaggio nei suoi scatti vendicativi come, d’altro lato, la struggente estasi poetica del suo animo contemplativo e piagato. Sorprendente, poi, per disinvoltura vocale e ancor più scenica il Tolomeo di Christophe Dumaux, un irresistibile controtenore-attore-acrobata, autentico personaggio noir della storia, e toccante per il canto intensissimo come per la nobiltà dell’interpretazione la Cornelia di Sara Mingardo, altra perla di questo cast, che vedeva nei ruoli minori i bravissimi Renato Dolcini (Curio), Christian Senn (Achilla), Luigi Schifano (Nireno).

Assumendosi l’onere di sostituire l’annunciata Cecilia Bartoli e di debuttare allo stesso tempo sul palcoscenico scaligero, Danielle de Niese è stata una Cleopatra ineffabile per comunicativa, seduzione e presenza vocale, che, anche senza elencare i fuochi d’artificio dell’autentica virtuosa, ha brillato per suggestione timbrica e incisività, insieme a una carnalità scenica perfetta a servire il personaggio della femme fatale.

Giovanni Antonini ha diretto il Coro (ottimamente preparato da Bruno Casoni) e l’Orchestra della Scala (impegnata a suonare strumenti storici) con estrema consapevolezza dello stile e della superba varietà climatica di questo capolavoro, non ingessandolo in una tipica esecuzione filologica, asettica e formale, quanto esaltandolo in tutta la sua esuberante ricchezza coloristica, nel suo rilievo psicologico, nelle sue continue sfaccettature espressive, con una tenuta dell’insieme di perfetta resa teatrale.
Successo, come già detto, entusiastico, con applausi interminabili ancora all’ultima recita.

foto Brescia Ametrano/courtesy La Scala