Il recupero al Donizetti Opera di Bergamo de La Favorite è un successo di pubblico, in primis per il tenore messicano Javier Camarena, presenza stellare di una produzione musicalmente riuscitissima. Davide Annachini
Il Donizetti Opera, storico festival dedicato da Bergamo al suo più illustre cittadino, ha quest’anno trovato il suo momento di punta in un’edizione particolarmente riuscita de La Favorite, presentata nella versione originale francese che proprio il festival aveva recuperato per primo in Italia nel lontano 1991. Da allora una delle opere più amate di Donizetti, ma diventata meno popolare di un tempo, è stata preferibilmente ripresa nell’edizione francese, che rispetto a quella italiana prevede una lunga parentesi dedicata alle danze – irrinunciabili nel 1840 per le attese grandoperistiche del pubblico parigino – e un finale leggermente diverso, come sarà anni dopo anche per Le Trouvère verdiano.
Fondamentalmente l’opera conserva e forse esalta la grande teatralità di Donizetti, come la sua qualità melodica – altissima soprattutto nelle arie del tenore e del baritono – e la capacità di sbalzare i personaggi con grande incisività lirica e drammatica. Al tempo stesso conserva anche la difficolta vocale delle parti, riservate a ugole di classe, che da sempre hanno costituito un banco di prova per artisti di prima qualità. Se non si hanno voci e personalità è quindi inutile tentare l’impresa; se si hanno, l’occasione diventa irrinunciabile. Tra i meriti del Donizetti Opera figura quello di essersi assicurato in questi ultimi anni un paio di tenori di prim’ordine come Javier Camarena e John Osborn, che magari alla Scala non cantano ma in tutto il resto del mondo sì (d’altronde non era già successo questo a dive leggendarie come la Tetrazzini, la Galli-Curci, la Ponselle sino alla stessa Callas, prima della sua clamorosa affermazione nel tempio milanese?), pur essendo al momento due inarrivabili specialisti del Belcanto e proprio per questo indispensabili al momento di programmare un titolo di grande responsabilità vocale.
E’ questo il caso della Favorite, che dai tempi di Kraus e Pavarotti era ancora in attesa del suo tenore di riferimento, in grado non solo di gestire la tessitura e gli acuti di una parte tra le più ardue come quella di Fernand ma di restituirne l’ineffabile cifra stilistica, nobile ed estatica, fiera e intimamente piagata. Javier Camarena, che nel giro di pochi anni ha raggiunto le primissime posizioni internazionali, ne è stato interprete sensazionale, per la vocalità lucente e al tempo stesso calda, per la naturalezza nell’affrontare la scrittura vertiginosa con una qualità timbrica compatta e addirittura smagliante nei frequenti do e do diesis acuti, per la cordialità del fraseggio e la generosità dell’interpretazione, sempre sorvegliata però nel controllo della linea stilistica. Una prestazione galvanizzante quella del tenore messicano, che progressivamente ha coinvolto il pubblico inizialmente apatico del rinnovato Teatro Donizetti, trascinandolo a una risposta entusiasta e – nel suo caso – osannante, emozione sempre più rara da provare ai giorni d’oggi nei teatri d’opera.
Ma Camarena non era solo nel contribuire a un’esecuzione di rilievo: Annalisa Stroppa, giovane mezzosoprano forse finora sottoutilizzato, in un ruolo di grande responsabilità come Léonor ha mostrato una vocalità di colore suggestivo e omogeneo sino al do acuto, oltre a una capacità di trovare colori e intenzioni da interprete di classe, toccante e appassionata, insieme a una bellissima figura scenica, che per rendere credibile la favorita del re di Spagna era quanto di meglio si potesse sperare. E il re Alphonse XI di Castiglia ha trovato nel baritono francese Florian Sempey un interprete all’altezza per restituire il canto aristocratico e austero che faceva di questa parte uno dei cavalli di battaglia dei cantanti più nobili di un’epoca leggendaria, ormai andata a perdersi nel tempo. La sua prestazione, molto corretta nel canto ed elegante nella resa scenica, è stata in perfetta sintonia con il resto della compagnia, che vedeva l’ottimo Balthazar, severo ma umano e vocalmente impeccabile, di Evgeny Stavinsky e nelle parti di fianco l’Inès di Caterina Di Tonno, il Don Gaspar di Edoardo Milletti, il Signeur di Alessandro Barbaglia.
Riccardo Frizza, che nel repertorio belcantistico ha sempre trovato il suo elemento d’azione, ha diretto con consapevolezza stilistica ma anche con energia vitale la partitura donizettiana, imprimendo un taglio fortemente teatrale all’esecuzione, anche se non del tutto attenta all’esaltata acustica del teatro, che ha fatto apparire l’orchestra e il coro del festival – insieme al Coro dell’Accademia del Teatro alla Scala preparato da Salvo Sgrò – fin troppo sonori e coprenti.
Lo spettacolo a firma di Valentina Carrasco (scene di Carles Berga e Peter van Praet, costumi di Silvia Aymonino, coreografie di Massimiliano Volpini, luci di Peter van Praet) proponeva le atmosfere di una Spagna cupa, oppressiva, dominata dall’immagine incombente della Madonna Addolorata – già evocata prima dello spettacolo da una processione davanti al teatro con tanto di incappucciati penitenti – che, anche se distante dalle timbriche suggerite dalla musica, poteva trovare una sua giustificazione e anche una certa suggestione. Ma l’idea di risolvere la lunga parentesi delle danze (che a seguito della quasi totale sparizione dei corpi di ballo dai teatri lirici costituisce l’inevitabile spina nel fianco di tutti i recuperi di grand-opéra) affidandole ad un gruppo di attempate signore bergamasche – nelle impietose vesti di odalische invecchiate dall’indifferenza del re verso le sue tante amanti prigioniere – è risultata alquanto imbarazzante nelle patetiche azioni mimiche di una femminilità svilita e offesa, molto in odore però di caricatura felliniana.
Parte del pubblico non ha risparmiato qualche mugugno allo spettacolo, ma per il resto si è trattato di un convinto successo per la componente musicale.
Visto al Donizetti Opera di Bergamo, il 27 novembre