Il capolavoro di Massenet ritrova alla Scala la sua forza romantica, grazie a un’edizione prosciugata da qualsiasi sentimentalismo e a un protagonista ideale come Benjamin Bernheim. Davide Annachini
Werther, capolavoro di Jules Massenet, è tornato al Teatro alla Scala con grande successo, non solo grazie a una produzione dai molti meriti ma anche in virtù di una sorta di riabilitazione dell’opera, un tempo popolarissima e tuttora in repertorio, ma molto meno di prima almeno in Italia, tant’è che a Milano mancava da più di quarant’anni. Probabilmente un lavoro dalla cifra così scopertamente sentimentale e romantica nel tempo ha ceduto il passo a repertori più stilizzati e specialistici, restando legato all’idea di un genere ormai datato. In realtà la bellezza della musica e la passionalità della storia dell’infelice poeta goethiano non hanno perso smalto ma necessitano di una rilettura meno sospirosa ed edulcorata rispetto a quella in voga da noi tra le due guerre, forte di interpreti ineffabili quanto languorosi come Schipa e Tagliavini. In Francia la tradizione ha vissuto su modelli più vigorosi e appassionati, come Thill o Vezzani, mentre in epoca moderna l’interprete di riferimento a livello internazionale è stato il nobilissimo Alfredo Kraus, solo recentemente riscattato da quello tutto Sturm und Drang di Jonas Kaufmann.
Alla Scala si è voluto evitare il rischio di scivolare nel sentimentalismo, con un’edizione antinaturalista tutta giocata sulla sobrietà scenica e su una recitazione attentamente calibrata, tesa a evidenziare risvolti psicologici inediti quanto plausibili. La regia di Christof Loy ha trasportato la vicenda agli anni ’50 del Novecento, trasformandola in un dramma borghese dal sapore ibseniano di Casa di bambola, in cui è stata soprattutto la figura di Charlotte ad emergere al momento di liberarsi dai doveri coniugali davanti allo stesso marito, nel dare sfogo alla sua passione repressa sull’ormai esanime Werther, spinto al suicidio dall’amore impossibile per lei. E il fatto di aver rinchiuso tutta l’opera all’interno di una stanza (scena fissa di Johannes Leiacker) ha aumentato il peso claustrofobico di una passione incontenibile e inconfessabile, a cui i costumi dall’eleganza alto-borghese di Robby Duiveman e le luci asettiche e impietose di Roland Edrich aggiungevano la respingente freddezza di un moralismo perbenista, causa prima dell’infelicità dei due protagonisti. Intriganti erano anche i rapporti che emergevano tra Charlotte e i familiari: da un lato con il marito Albert, vendicativo al punto non solo da creare i presupposti per il suicidio del rivale ma anche da impedirne il soccorso, dall’altro con la sorella minore Sophie, istintivamente gelosa della maggiore per le attenzioni che le riserva il fascinoso poeta, sprezzante invece nei suoi confronti.
Inutile dire che tutte queste intenzioni, giocate su sottilissime sfumature e senza concedere nulla all’effetto, potevano essere restituite solo da interpreti all’altezza, nel qual caso anche cantanti di assoluta qualità. Era evidente ad esempio che questa edizione del Werther nascesse su misura per un tenore come Benjamin Bernheim, attualmente specialista indiscusso del repertorio romantico francese, come già alla Scala si era potuto constatare nel recente recital in coppia con Lisette Oropesa. Timbricamente forse non preziosa ma ottimamente proiettata ed emessa, quella di Bernheim si presta ad essere la voce di Werther, malinconica, sognante, a tratti disperata, a tratti struggente, ma soprattutto in grado di evocare con un uso squisito delle sfumature le pieghe più segrete dell’infelicità di un destino segnato dall’impossibilità dell’amore e di conseguenza votato alla morte. Il tenore francese si è rivelato all’interno di questa regia come un protagonista ideale, per la presenza aristocratica e quasi pietrificata nel suo dolore, che senza un gesto di troppo è riuscita a trasmettere un personaggio toccante per fragilità e nobiltà eroica dei sentimenti. Altrettanto splendida è stata la Charlotte di Victoria Karkacheva, dalla voce calda ed avvolgente quanto di presenza bellissima ed espressività catturante, che con la progressiva maturazione del personaggio ha trovato modo di emergere in un finale davvero emozionante e risolutivo. Ma ottimi sono stati tutti gli interpreti di contorno, dalla Sophie vocalmente vaporosa e intensa di Francesca Pia Vitale all’Albert severo e orgoglioso di Jean-Sébastien Bou, per arrivare ad Armando Noguera (le Bailli), Rodolphe Briand (Schmidt) e nei ruoli minori Enric Martinez-Castignani, Pierluigi D’Aloia, Elisa Verzier.
La direzione di Alain Altinoglu si è allineata ottimamente alla scelta stilistica dello spettacolo, con misura, incisività, passione ma senza mai cedere al facile effetto o a un romanticismo di crosta, ottenendo eccellente supporto dall’Orchestra della Scala.
Caldissimo il successo di pubblico, con punte esplosive per Bernheim al momento di “Pourquoi me réveiller”, aria celeberrima da sempre sigla dell’opera di Massenet, che qui ha trovato una delle sue interpretazioni memorabili.
Visto al Teatro alla Scala di Milano, 19 giugno