Attila torna a Venezia ma il flagello di Dio è Odabella

Una felice edizione dell’Attila alla Fenice di Venezia ha riportato l’opera verdiana nel suo teatro d’origine, con un cast di qualità in cui ha brillato l’Odabella di Anastasia Bartoli.                    Davide Annachini

Attila di Giuseppe Verdi è tornato alla Fenice di Venezia, il teatro che lo tenne a battesimo nel 1846, come nel caso di altri famosi titoli del catalogo verdiano, quali Ernani, Rigoletto, Traviata, Simon Boccanegra. Sicuramente in pieno Risorgimento quest’opera consolidò l’immagine di Verdi quale portatore dei valori patriottici e si impose come manifesto in musica di un’Italia in guerra contro l’oppressore, che nel “flagello di Dio” vedeva il leggendario precursore degli austriaci invasori. Che poi nel libretto di Temistocle Solera, ricucito sbrigativamente da Francesco Maria Piave, il re unno passasse quasi dalla parte della vittima – tradito dal terzetto complottista Odabella-Ezio-Foresto e comunque già segnato intimamente da incubi e fragilità tutt’altro che eroiche – non doveva sorprendere, perché questo rientrava nella confusione storica in cui viveva il melodramma ottocentesco, affascinato dal passato ma al tempo stesso disinvolto manipolatore in chiave romanzesca di qualsiasi soggetto.

Anche Attila non sfugge a una drammaturgia tagliata un po’ con l’accetta, dove gli eventi si susseguono senza respiro e con scarsa plausibilità, ma pur in questa spartana risoluzione i personaggi riescono ad assicurarsi una loro identità, quando non addirittura un risvolto introspettivo, grazie sicuramente alla mano di Verdi. Nei ritmi brucianti, nelle impennate vocali, nella coralità degli insiemi, il musicista più popolare dell’epoca – qui alla sua nona opera – trova l’elemento preferenziale, che nella tipica scansione recitativo-aria-cabaletta infiamma e travolge, siglando con un sentimento di appartenenza tutta italiana i lavori dei cosiddetti “anni di galera”.

Non viene meno in quest’opera la grande responsabilità vocale tipica dei lavori giovanili di Verdi, soprattutto nel caso del soprano, quel “drammatico d’agilità” a cui era richiesto un canto di sbalzo tra i registri estremi, un virtuosismo di forza, grande vigore e scolpitezza di accento, ma al tempo stesso dolcezza, lirismo e pianissimi anche in acuto. La parte di Odabella risponde in toto a questi requisiti, ponendosi tra i ruoli più temibili del primo Verdi e di conseguenza tra i più difficili da assolvere. Alla Fenice si è imposta nelle vesti dell’eroina impavida e alla fine vendicatrice Anastasia Bartoli, soprano in clamorosa ascesa che di questa edizione è stata la punta di diamante. Già dallo slancio bruciante della terribile aria d’entrata come di tutti gli interventi d’insieme, risolti con voce penetrante, salda, estesa, duttile nelle fioriture, si è riconosciuto il carattere del personaggio, combattivo e un po’ virago, ma ancora più ha stupito la capacità della Bartoli di modulare in un gioco di piani e pianissimi la difficilissima seconda aria, all’opposto di cifra estatica e intimista. Una prova maiuscola che è andata ad aggiungersi alle progressive conquiste di questo soprano, giustamente premiata da un caloroso successo personale. Ma solido era anche il versante maschile, a partire dall’Attila di un veterano come Michele Pertusi, collaudato interprete del ruolo, che in questo caso ha rivelato nella sua esecuzione – come sempre professionale ed elegante – un’inedita nota malinconica e dolente, estremamente suggestiva nel restituire il lato vulnerabile di un re barbaro molto più umano rispetto al tradizionale cattivo tutto d’un pezzo. Altro professionista di lunga militanza verdiana, Vladimir Stoyanov ha assicurato al generale romano Ezio la vocalità solida e svettante come il fraseggio scolpito del tipico baritono eroico, che in questo caso non offre invece troppe occasioni all’interprete per esplorare aspetti psicologici sotto la rocciosa armatura. Nella parte di Foresto, dalle aperture sentimentali e appassionate, il tenore Antonio Poli ha mostrato la giusta caratura lirica di una voce di per sé bella ma non pienamente sostenuta tecnicamente, in cui certe falle incominciano a venire a galla rispetto alle promettenti prove del recente passato, in una tendenza a gonfiare i centri e a spingere sugli acuti, con la sensazione di un canto faticoso in una parte di per sé non proibitiva. Completavano il cast l’Uldino di Andrea Schifaudo e il Leone di Francesco Milanese, sotto la guida di Sebastiano Rolli, direttore sicuro e incisivo nel gestire gli organici della Fenice (maestro del coro Alfonso Caiani), per quanto discutibile nella scelta di contrapporre frequentemente improvvise dilatazioni a tempi acceleratissimi – soprattutto nelle cabalette, per altro quasi mai variate nei “da capo” – senza raggiungere per questo risultati particolarmente significativi a livello espressivo.

Lo spettacolo a firma di Leo Muscato (scene di Federica Parolini, costumi di Silvia Aymonino, luci di Alessandro Verazzi) viveva più che altro sull’evocazione di atmosfere brumose e indefinite, senza tentare però soluzioni teatrali veramente decisive – comunque ipotizzabili anche in un’opera così concisa – con il rischio di languire alla lunga in una recitazione tendenzialmente impalata e in una convenzionalità non esattamente coinvolgente per un melodramma tutto ferro e fuoco come questo.

Caloroso alla fine il successo per tutti gli esecutori, in particolare come si è detto per la Bartoli.

 

Visto al Teatro La Fenice di Venezia il 24 maggio

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