Il vecchio principe

Gli opposti si attraggono

Due spettacoli apparentemente inconciliabili, “Shitz – pane amore e…salame “ e Il vecchio principe, si incontrano casualmente in un teatro... – Renato Palazzi


Per una singolare coincidenza, in due diverse sale del Teatro Elfo Puccini di Milano sono al momento in scena due spettacoli diametralmente e quasi esemplarmente opposti per il tono, per la visione del mondo, per il modo in cui rappresentano la famiglia. Nella Sala Bausch la compagnia milanese Idiot Savant/Ludwig propone infatti l’irridente Shitz – pane amore e…salame del drammaturgo israeliano Hanock Levin, un testo che fin dall’inizio si presenta come un truce esercizio di cinismo: i protagonisti, che sopra gli abiti indossano delle grottesche protesi di stoffa, false tette, false chiappe, sono piccoli mostri, caricature esagitate. I loro dialoghi svariano dall’ossessione del cibo a un’ottusa cura dei propri interessi materiali che sovrasta ogni affetto e sentimento.

La trama, semplicissima, mostra una famiglia ebraica di oggi, un padre e una madre che cercano a ogni costo di far sposare la figlia. Lei – per dire il clima – invoca la loro morte, afferma di non volersi sposare finché i genitori non saranno debitamente crepati, loro ribattono che non intendono crepare prima che le nozze siano celebrate. Poi compare un ipotetico fidanzato, un ciccione coi calzoni al ginocchio, e i due decidono di unirsi perché condividono la passione per la carne di maiale e odiano entrambi «sedersi sui cessi freddi d’inverno». Il padre e l’aspirante marito iniziano una sordida trattativa sulla dote: ciascuna delle due parti aspira ad arricchirsi a spese dell’altra, finché scoppia una guerra nel corso della quale l’uomo più giovane resta ucciso.

La pièce vive soprattutto di quella scrittura feroce, disinibita, scandita da stralunati siparietti musicali e song dal sapore quasi brechtiano. Il suo linguaggio colpisce per la sfrontata volgarità che lo contraddistingue, per i bassi istinti che guidano i personaggi: battute come quella della ragazza, «è sabato sera e potrei essere orfana, invece sono single», canzoni come quella del vecchio padre, «quando avevo vent’anni i miei coglioni erano pieni», specialmente all’inizio hanno un effetto fulminante. Poi, a lungo andare, lo scoppiettio verbale tende un po’ a fermarsi, per certi versi si ripete: ma la scelta di puntare su questo autore, prematuramente scomparso nel ’99, è comunque interessante.

Filippo Renda, che firma la regia e l’adattamento del testo, confeziona uno spettacolo intelligente, coerente con quel suo stile tutto sopra le righe, improntato a una buffoneria livida, dai tratti vagamente espressionisti: il ruolo della madre è sostenuto da un attore, l’eccellente Mauro Lamantia, il padre, Mattia Sartoni, si aggira laidamente alla ribalta in mutande, il fidanzato, Matthieu Pastore, sfoggia una fisicità greve, invadente, Valentina Picello imprime ritmi virtuosistici alla caratterizzazione della figlia, e dimostra anche inedite virtù canore. Simone Tangolo accompagna alla chitarra osservando perplesso l’azione. Tratteggiano delle maschere, delle figurette ridicole: ma la loro comicità mantiene un’impronta gelida, volutamente sgradevole.

Tutto il contrario, come si diceva, di quanto avviene nella Sala Fassbinder, dove César Brie propone invece Il vecchio principe (nella foto in alto), uno spettacolo lieve, malinconico, improntato a un certo smaccato sentimentalismo. Il regista argentino lavora su un’idea curiosa, quella di realizzare una rilettura del Piccolo principe al centro della quale non c’è un metaforico bambino, ma un anziano ricoverato in un ospedale geriatrico. Adottando questa chiave, Brie si sforza di strappare il celeberrimo testo agli immancabili cliché che ne hanno accompagnato tante interpretazioni teatrali, anche recenti. Ma nello stesso tempo si espone al rischio di assommare la zuccherosità tipica di Saint-Exupéry col taglio dolciastro con cui di solito si affronta il tema alla vecchiaia.

Il suo “primo studio sulla terza età” – ancora in fieri – è scarno, essenziale. Lo spazio nudo è arredato solo dal telaio di una porta, e da una striscia di tela lunga e stretta che può diventare tante cose, una strada, un corridoio dell’ospizio, l’enorme fascia con cui avvolgere un corpo. L’atmosfera è sospesa, trasognata, sempre in bilico tra una quotidianità alterata e una visionarietà sottilmente onirica. I bravi attori del Teatro Presente, che firmano anche la drammaturgia, nata direttamente dalle prove, sono tre, Vincenzo Occhionero, che incarna il vecchio sconclusionato, probabilmente affetto dall’Alzheimer, Manuela De Meo, che impersona i ricordi di costui, forse i suoi antichi amori, e Pietro Traldi, che è Antoine, l’aviatore-scrittore qui diventato infermiere del turno di notte.

Come tutti gli spettacoli di Brie, Il vecchio principe piace al pubblico per quel suo nascere continuamente dal nulla, da tenui fantasie, dall’incessante capacità evocativa dei giovani interpreti, ai quali basta un gesto, un temporaneo cambio d’abito per suggerire stratificati paesaggi interiori. Nel canovaccio le situazioni del racconto di Saint-Exupéry – la rosa lasciata su un pianeta lontano, il lampionaio, qui trasformato in guardiano di un faro – si mescolano a squarci dell’esistenza d’ogni giorno, il primario autoritario, il nipote ubriacone, la nipote manager che mentre viene a fargli visita non si stacca dal telefonino attraverso il quale compra e vende senza sosta delle azioni. L’operazione è interessante, ma le sue ambizioni scopertamente “poetiche” fanno rimpiangere la cattiveria dell’autore israeliano: in quel vecchio immaginifico, in quei parenti indifferenti c’è comunque qualcosa di prevedibile, che non spiazza e non graffia ma non arriva neppure veramente a commuovere.