Dopo quelli di Antonio Audino e Renato Palazzi, siamo lieti di ospitare l’intervento del critico Anna Bandettini. Ricordiamo che la “scintilla” di questo interessante dibattito pubblico è scoccata grazie alla dirompente rilettura della commedia di Eduardo realizzata da Antonio Latella, in scena fino al 1° gennaio 2015 al Teatro Argentina di Roma
Cari Antonio e Renato,
mi fa piacere che abbiate aperto questo dibattito a partire da una serie di riflessioni su Natale in casa Cupiello diretto da Latella: essendo stata testimone dell’urtata reazione di una parte del pubblico ad una delle repliche di quello spettacolo, credo che una qualche forma di pensiero in merito vada fatta.
Dico subito che concordo molto con quanto scritto da Renato. Non credo che sia una strategia culturale “ghettizzare” la cosiddetta sperimentazione da una parte, e il cosiddetto teatro borghese, o teatro di prosa “medio”, come lo ha chiamato una volta Ugo Volli, dall’altra.
A me pare che una delle conquiste culturali di questi ultimi anni sia proprio stata la perdita di significato di una distinzione netta tra “sperimentale” (cosa si definirebbe oggi come sperimentale?) e non sperimentale. Sperimentale è ciò che innova i linguaggi dell’arte? È tutto ciò che è contemporaneo? Mi paiono etichette terribilmente ristrette e non solo per il teatro. Prendi le arti visive o la musica. Ci sono autori “viventi” (penso al pur stimatissimo Fabio Vacchi) che sono molto più classici di autori che ci paiono classici come Stravinsky o Ravel. Ivan Fedele o Salvatore Sciarrino che sono stati a lungo considerati “sperimentali”non sono ormai dei “classici” per la nuova fervida leva di compositori quaranta-cinquantenni? Eppure non devono essere suonati alla Scala perché la loro formazione è dodecafonica?
Latella a cui tutti riconosciamo la radice artistica nel grande “teatro di regia” non si merita l’Argentina e Luca Ronconi sì?
Io credo che sia un traguardo culturale (e non solo un atto di coraggio da parte di chi l’ha fatto) portare Romeo Castellucci, il più indefinibile dei nostri artisti teatrali ma sicuramente il meno “borghese”, al Teatro Argentina, esattamente come all’estero dove viene presentato in luoghi come la Monnaie ecc…
Non voglio scomodare le reazioni urtate e le parolacce che i milanesi rivolgevano a Strehler e compagni durante le repliche del Galileo nella stagione ’62-’63, salvo applaudirlo e ammirarlo qualche stagione dopo. La cultura è permeabile, cresce su incroci, differenze, spesso anche contestazioni. Vedi gli impressionisti nella Parigi di fine Ottocento che venivano recepiti come uno scandalo, come qualcosa di immorale eppure cambiarono il corso della storia delle arti visive. I grandi maestri riformatori del teatro del Novecento sfidarono spesso le convenzioni del teatro ufficiale e del pubblico che lo seguiva, eppure non è che quel rifiuto abbia decretato la morte del teatro “tout court”.
Si può non essere d’accordo con l’operazione che Antonio Latella ha fatto su Natale in casa Cupiello, ma non solo va riconosciuta a quella operazione il suo valore di qualità artistica (non è insomma una banale modernizzazione o una approssimativa voglia di stravolgere i linguaggi della tradizione); poterla vedere nel primo teatro della capitale è “già” un fatto culturale importante. Far vedere al pubblico nuove famiglie, nuove solitudini… Spingerlo verso nuovi linguaggi dello spazio e della prosa, verso le nuove intermittenze del mondo teatrale “è” fare cultura. Se poi c’è chi ne esce disgustato, troverà sempre facilmente i teatri dei musical o delle commedie di conversazione, ma intanto quelle breve, fulminea “contaminazione” sarà servita anche come reazione negativa e di rifiuto: sarà servita a far capire che non esiste “un” solo teatro e poi quello che quattro matti fanno su testi o rincorrendo loro pensieri, ma che esistono le differenze di qualità e di impostazione.
Se da tempo in molti rileviamo che Milano è una città teatralmente più ricca rispetto al resto d’Italia e soprattutto rispetto a Roma è proprio perché da anni a Milano i teatri sono diventati espressione di realtà artistiche diverse senza preclusioni: al Parenti puoi vedere Goldoni, o l’Eduardo bellissimo di Luca De Filippo, Sogno di una note di mezza sbornia come in questi giorni, ma anche il folle Don Giovanni di Timi, o sul Concetto di volto nel figlio di Dio di Castellucci, così come all’Out Off puoi vedere un Pinter di Loris o Jan Fabre. Eppure questi teatri non hanno perso prestigio né interesse.
Io credo sia sbagliato pensare che esista una forma teatrale alta e bassa, sperimentale o “ufficiale”. Personalmente considero i teatri luoghi ancora culturalmente vivi e attivi, dove si rischia di divertirsi, di vedere quello che ci aspettavano di vedere o di essere urtati per non capire quello che si vede, ma sempre di potersi rispecchiare su quella scena.
P.s.: vivo a Roma ormai da sei anni e raramente ho visto all’India spettacoli cosiddetti “sperimentali”. Io ci ho visto anche molti spettacoli brutti e molto tradizionali. Insomma non vedo tutta questa vocazione sperimentale di quel luogo. Ma trovo che alla fine, sia come sia, l’importante è che nei teatri la gente ci vada.
Anna Bandettini
Cari Renato, Antonio e Anna
Anche se molto a spanne a mio modesto avviso la questione sembra molto semplice. Alle ere del capocomico/mattatore e del regista/demiurgo è subentrata quella del grande critico, con tutti i nessi e connessi, e inevitabilmente – non poteva non essere così – le pretese e l’asticella della cosidetta qualità, si sono alzate. Un certo teatro, prima più ai margini e per addetti, ha progressivamente assunto un ruolo sempre più di primo piano (che significa anche finanziamenti e vendite sia ben chiaro), allontanandosi però da quello che viene considerato il pubblico normale, la gente comune. Latella non c’entra. E’ assolutamente marginale se il suo spettacolo sia bello, brutto, più o meno adatto a questo o quel circuito o teatro; il problema, sempre a spanne, è casomai perché la questione la si pone adesso, quando è da decenni un fenomeno in atto.
Renato Sarti, Teatro della Cooperativa
Sicuramente è culturale un teatro che non si chiude ad un genere ma rimane aperto a tutti modi di esprimersi. Le novità furono fischiate nella storia del Teatro è vero, ma in questo caso è stato fischiato il Vecchio, poichè questo modo di tratttare i testi è molto vecchio e provinciale. Quando ci metteremo a fare teatro d’Arte, che sia commedia comico umoristica , che sia dramma, che sia tragedia, allora ne riparliamo. E per fare Teatro d’Arte ci vuole l’abbattimento completo dell’Ego. In questa operazione l’Ego è grosso come una capanna. Quando Pirandello fu fischiato per i Sei personaggi l’Ego lo aveva lasciato a casa prima di mettersi a scrivere. Qui è un operazione egoica poichè è tutta dentro ad una sola testa che poi i critici esaltano e omaggiano per far mostra di essere perspicaci. Bisogna avere un pò di coraggio intellettuale e dirle queste cose.
Comunque ancora qui ci si sta a fare le pippe con le strutture e con i linguaggi, e con l’interpretazione! La verità è che i critici per essere un vero tramite con la società e i pubblici dovrebbero essere a loro volta degli artisti, cioè conoscere e essere parte del processo artistico e non dei funzionari della storia e della teoria delle messe in scena o delle forme o formule estetiche! Per chi fa veramente sperimentazione le strutture sono solo il punto di partenza e si danno per date, tanto che i più grandi, come Pirandello, al quale Eduardo deve molto(!!!), tutto facevano per farle a pezzi, pure le strutture!
Non parliamo dei linguaggi, vero baratro dell’Arte. Quando l’arte crede di innovare lavorando sui linguaggi ha già finito, è già carne morta, c’è già la muffa! I rivoluzionatori di linguaggi sono adoratori necrofili, rimestano nel putridume dei cadaveri e della morte, e con l’Arte non hanno nulla a che fare! Ma qui ancora una volta non hanno responsabilità tanto gli artisti, quanto i chiacchieroni e gli spiegatori dell’arte, che la espongono al pubblico sempre dal punto di vista dell’interpretazione, dei linguaggi e delle strutture, facendo un gran caos una gran marmellata di tutto… E ovviamente dietro tutti come gregge.
Quando i critici saranno partecipi dei processi segreti e delicatissimi che gli attori sotto la guida del regista intraprendono in certi casi (rari) e quando il pubblico (non tutto, in genere quello in pelliccia…ma pure no) smetterà di andare a Teatro credendo di vedere la TV, e si sentirà parte di un rito che ci coinvolge tutti più dei mondiali di calcio, allora qualcosa comincerà a muoversi nella direzione vera.
Parlando di sperimentazione si crea una frattura tra due modi di fare teatro.
Latella dice che il suo Natale non può essere fatto di porte che si aprono, di salotti e tinelli. Raccontare Eduardo significa tradirlo e allontanarsi dalla sua eredità. Andare contro il realismo e il naturalismo.
Quindi si può dire che sperimentazione è il contrario di realismo e naturalismo?
Sì, nel suo caso.
Ma un testo realista che preveda una recitazione naturalista non è teatro?
Qualcuno dirà che si avvicina alla tv o al cinema.
Vero?
Sì, in alcuni casi.
Allora è vero in assoluto che il realismo e il naturalismo siano il contrario della sperimentazione?
E la sperimentazione è davvero tutto ciò che si allontana dalla realtà?
Quindi la commedia non è mai sperimentazione.
Forse.
Ma di questo passo non si finisce più di spaccare il capello.
Il linguaggio di Eduardo può essere un pretesto? Certo.
Dario Fo non è sperimentale?
Forse no, perchè si ispira al passato dei giullari nei suoi monologhi e nelle sue commedie ci riporta alla commedia dell’arte. In alcuni casi però cerca strade realistiche e popolari.
Che dire?
Dario Fo ai tempi della Palazzina Liberty non sperimentava?
Non mi sentirei di dirlo.
E che dire della regia?
La regia è sperimentale in un momento storico e dopo qualche anno è già vecchia e destinata alle signore in pelliccia che hanno pagato l’abbonamento?
La signora col visone considera sperimentale ciò che non capisce?
Considera classico ciò che la emoziona e capisce?
Bisognerebbe chiederlo a lei.
Realismo o sperimentazione? Ecco il problema. Se è un problema.
La sensazione è che alcuni registi si servano di testi realisti non scritti da loro per fare una regia, loro, sperimentale contrastando il realismo.
Ma se il nemico della sperimentazione è il realismo, perchè usare un testo realista?
La tazzulella ‘e cafè di Eduardo lascia il posto a dei simboli.
Ecco fatta la sperimentazione?
La famiglia Cupiello smette di essere “una” famiglia e diventa “tutte” le famiglie.
Ma non era questo anche l’intento di Eduardo?
Io proporrei di abolire la parola SPERIMENTAZIONE.
Troviamone un’altra. Un neologismo, un verso, un suono. Come Ubu.
Diciamo che ci sono diverse forme di teatro tante quante le persone che fanno teatro.
Ci sono i generi… ecco, quelli almeno non ce li può togliere nessuno. Nè i critici, nè gli sperimentatori, nè i conformisti, nè le signore in pelliccia.