L’allestimento firmato da Walter Pagliaro del testo di Thomas Bernhard mostra l’impressionante talento interpretativo di Micaela Esdra ma anche un’eccesso di elaborazione rispetto alla parola dura, spoglia, senza orpelli decorativi dello scrittore austriaco – Renato Palazzi
Alla meta è uno dei più grandi testi di Thomas Bernhard, e tutto sommato uno dei meno visti in Italia: personalmente ne ricordo solo la bella messinscena di Cesare Lievi con la bravissima Franca Nuti, del ’99, e quella molto particolare realizzata nel 2006 dal Teatrino Giullare, che mescolava in un inquietante artificio attori in carne e ossa e figure inanimate, in modo da rendere indistinguibili gli uni dalle altre. Un precedente allestimento dell’89, con Valeria Moriconi e la regia di Piero Maccarinelli, mi era invece inspiegabilmente sfuggito.
Al centro dell’azione – o per meglio dire della dichiarata assenza di azione, dell’ostentata impossibilità di qualunque spostamento interiore – ci sono due donne, una madre e una figlia, che stanno facendo i bagagli in attesa di partire per la loro casa al mare. Anzi, è la figlia – che la donna definisce un po’ ritardata, ma non c’è da prendere troppo sul serio questa sua osservazione – che con zelo estrae dagli armadi una quantità di vestiti e li ripone in valigia, mentre la madre, seduta in poltrona, riempie il vuoto della sua vita con un flusso incessante di parole.
Lei appartiene alla schiatta dei grandi vecchi bernhardiani: cinica, feroce, tormentosa nei confronti di chi le sta accanto – in questo caso la ragazza, spietatamente sottomessa – logorroica, ripetitiva e come imprigionata in una gabbia di pensieri ossessivi, presumibilmente sempre gli stessi da anni e anni: un marito morto da tempo e tenuto a distanza quand’era in vita, sposato solo perché facoltoso proprietario di una fonderia, un bambino nato con una malattia congenita che lo faceva sembrare un vecchietto, e rifiutato per questo, tenuto nascosto sino alla fine prematura, un cocente nucleo di solitudine e di dolore che l’esercizio di una crudeltà gratuita non riesce del tutto a esorcizzare.
Ogni anno la sua esistenza senza senso sembra riscattarsi in quella elettrica aspettativa di partire per il mare, e ogni anno l’arrivo nella villa si rivela immancabilmente deludente. E’ la tipica nevrosi bernhardiana: quando si è in un luogo si aspira a essere in un altro, e da lì si vorrebbe subito tornare indietro. L’unico punto di relativo appagamento è a metà strada. Per l’occasione, con loro partirà uno scrittore di teatro di successo, appena conosciuto. Anche rispetto all’ospite si passa dall’eccitazione della novità al rammarico di averlo invitato. Ma neppure la sua presenza cambierà qualcosa: ovunque si vada, non ci si allontana mai abbastanza da se stessi.
Lo spettacolo diretto da Walter Pagliaro, che comprime arredi e personaggi in uno spazio angusto, un po’ soffocante, conferisce a questa impossibile ricerca di una temporanea tregua dall’angoscia una risonanza vagamente simbolica: ne fa qualcosa di connesso all’essenza stessa del recitare, una sorta di metafora del teatro e dei teatranti, giocando anche sul fatto che la madre discende da un pagliaccio del circo. E infatti al centro di questa sua lettura c’è l’impressionante performance interpretativa di Micaela Esdra, una figura sinistramente senza età, né giovane né vecchia, come se succhiasse agli altri la vitalità, che trasforma i soliloqui della donna in una sofisticatissima partitura vocale.
L’attrice sfoggia un talento incontenibile, una padronanza tecnica spinta quasi al limite del virtuosismo: cesella la sonorità di ogni parola, cambia continuamente intonazione all’interno della stessa frase. Il suo è uno sfoggio di talento indubbiamente fuori dal comune: eppure mi convince fino a un certo punto. Non so quanto Bernhard, paradossalmente, tolleri simili prove di bravura. È come se quella dizione straordinariamente elaborata avesse un che di eccessivo rispetto alla sua scrittura, che di fatto è dura, spoglia, senza orpelli decorativi.
C’è, in primo luogo, un problema di ritmo. Quella specie di raffinato solfeggio, quella scomposizione delle singole parole, quegli intervalli vagamente ronconiani tra l’una e l’altra dilatano fatalmente i tempi, alterano il tipico andamento del periodare bernhardiano, che viceversa è febbrile, serrato, incalzante nelle sue sequenze circolari, senza un attimo di pausa. E infatti, non a caso, lo spettacolo si protrae fino a sfiorare le tre ore circa di durata, molto più di quanto richiesto normalmente da questo testo.
Ma il problema, a mio avviso, è più complesso, e riguarda la delicata questione dell’ambiguo rapporto con la realtà, con la minuziosa riproduzione di un’impassibile quotidianità che viene attuata da Bernhard: le vicende che egli porta alla ribalta evocano dei meri segmenti di vita, i personaggi hanno a volte i nomi degli attori che li incarnano, vedi Ritter, Dene, Voss, o si ispirano a figure davvero esistenti, come Claus Peymann o Bernhard Minetti. E nello stesso tempo da questa realtà prendono sottilmente le distanze, la spiazzano, vi inseriscono degli elementi impercettibilmente estranei che ne fanno un insidioso trompe l’oeil, una trappola intellettuale.
L’apparenza inganna, ammonisce l’autore austriaco. Tutto il suo teatro, come è noto, si gioca su un precario equilibrio tra verità e finzione: basta spingersi un po’ più in là da una parte o dall’altra e questo equilibrio rischia di cadere. Perciò mi sembra che il tracimante esercizio istrionico dell’attrice, il suo funambolismo verbale – per quanto ammirevole – faccia pendere la bilancia in direzione di una musicalità quasi in contrasto con l’asciutta oggettività che il linguaggio di Bernhard in qualche modo richiede.
Lo stesso discorso si potrebbe fare, sotto certi aspetti, per il modo in cui sono inquadrati i comprimari: rappresentare la figlia – affidata a Rita Abela – come una ragazzotta obesa è un’idea, anche se forse un po’ incongrua rispetto al fatto che lo scrittore di teatro sembra accettare l’invito proprio perché intravede una possibilità di flirtare con lei. Ma è soprattutto lo scrittore stesso che non può a mio avviso diventare la macchietta stralunata, lievemente parodistica tratteggiata da Diego Florio. Lo scrittore di teatro ha un ruolo di contorno, ma decisivo. È, in un certo senso, la cartina di tornasole del filtro stilistico che impone questo testo: se ne viene fatta una caricatura, a mio avviso, tende a spostarsi tutto il tono complessivo dello spettacolo.
Lo scrittore di teatro è, in una certa misura, lo stesso Bernhard, lo sguardo diretto dell’autore sulle sue creature. E in una certa misura non è Bernhard, che anzi lo tratta con una punta di freddezza, come tutti gli altri personaggi. Ma la freddezza non è disprezzo né dileggio: il fatto che egli pronunci delle amare battute sul fallimento degli scrittori – «tutti gli scrittori hanno fallito / ci sono sempre stati solo scrittori falliti», «tutti partono sapendo che falliranno se valgono qualcosa / solo gli ottusi e i mediocri non arrivano nemmeno a questo pensiero / Il pensiero di fallire è un pensiero essenziale» – è un riflesso del pessimismo bernhardiano, non un’ammissione di inettitudine personale.
Presumibilmente, Bernhard guarda a lui con lo stesso misto di adesione e ripugnanza con cui si guarderebbe allo specchio. Lievi, se ben ricordo, ne aveva fatto una specie di Heiner Müller da giovane – o almeno, così mi era parso – che era una buona soluzione, tale da escludere il richiamo autobiografico senza perdere verosimiglianza. Dalle foto della “prima”, avvenuta – credo – un paio d’anni fa a Catania, sembra di capire che anche Pagliaro avesse fatto una scelta analoga, e francamente non si capisce cosa lo abbia indotto a cambiare strada.
Visto al Teatro Franco Parenti di Milano. Repliche fino al 22 febbraio 2015
Alla meta
di Thomas Bernhard
traduzione: Eugenio Bernardi
regia: Walter Pagliaro
scene: Sebastiana Di Gesù
musiche: Ilario Grieco
con: Micaela Esdra, Rita Abela, Diego Florio
produzione Associazione Culturale Gianni Santuccio