In cui si commemora Luca Ronconi e la sua vitalità, si riflette sulla natura dei festival, si ricordano due vite spese per il teatro e si tessono le lodi di un celebre ristorante in quel di Santarcangelo…
È bello che Ronconi, nella giornata di commemorazione che Spoleto gli ha dedicato, sia stato ricordato da due delle istituzioni formative a lui più vicine, il Centro Santacristina – la sede dei suoi corsi estivi di perfezionamento – e l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, dalla quale sono usciti tanti dei giovani attori alla cui crescita ha dato un apporto sostanziale. A cinque mesi dalla morte, si rimpiangono i grandi spettacoli del regista, ma ancor più si rimpiangono quei laboratori aperti, quegli appassionanti work-in-progress che gli consentivano di giocare liberamente con la sintassi del teatro, riversandovi doti di freschezza e di curiosità intellettuale senza pari. Sono quelle esperienze che hanno spesso cambiato la nostra percezione di un testo o di un autore, offrendoci prospettive inedite e a volte illuminanti.
I festival di teatro, a ben vedere, sono anche delle piccole ma fedeli metafore della vita. Sembrano densi, interminabili, ma poi passano incredibilmente in fretta, si esauriscono in un attimo. Si parte pieni di gioiose aspettative, si procede fra inevitabili contraddizioni, ci si adatta, ci si rassegna agli alti e bassi delle emozioni e si finisce per andarsene con la vaga sensazione che il meglio dovesse ancora venire. Si condividono esperienze intense e importanti con nostri simili coi quali non ci si incontra per lunghi mesi, e che di nuovo, il giorno dopo, spariranno per mesi senza praticamente lasciare traccia. Si vedono cose che chi sarà lì dopo di noi non potrà vedere, mentre chi sarà lì dopo di noi vedrà cose che noi non avremo visto. Si arriva in genere fra calorosi festeggiamenti, e se ne esce quasi sempre in silenzio.
Ci sono luoghi del buon cibo e della buona accoglienza di cui nessuna guida gastronomica riuscirà mai a dare pienamente conto. A Santarcangelo, diciamolo francamente, si va anche – o soprattutto – per mangiare da Zaghini, che è il vero cuore del festival, la propaggine golosa del suo programma di spettacoli. Le celebri tagliatelle al ragù valgono il viaggio, compresa qualche coda in autostrada, ma non si devono trascurare il vitello tonnato senza maionese o le verdure gratinate al forno, il tutto cucinato come si fa da decenni, con quel tono un po’ retrò che caratterizza anche l’aspetto del locale: in un festival da sempre votato alle proposte più innovative, Zaghini è l’unico, saldo appiglio alla tradizione. È uno spazio dell’anima, del palato, del confronto d’opinioni: in questi giorni, non a caso, tutto il teatro italiano si ritrova ai suoi tavoli.
Sono scomparsi a pochi giorni di distanza Gabriele Amadori e Fabrizio Palla, che avevano entrambi lavorato per anni alla Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi” di Milano. Il primo, pittore affermato, scenografo, era docente al corso di regia, il secondo era un po’ tutto, direttore tecnico, responsabile delle attrezzerie, ingegnoso costruttore di oggetti e macchinerie di ogni genere e tipo, amatissimo da generazioni di allievi, ai quali non aveva mai fatto mancare il suo sostegno, e apprezzato anche da Kantor, che lo aveva chiamato a collaborare alla realizzazione de La macchina dell’amore e della morte. Durante la loro vita, Gabriele e Fabrizio sono stati spesso in competizione nell’affermare i rispettivi ruoli. Ora, per non farsi concorrenza, se ne sono andati quasi insieme. Ciao a tutti e due.