Arkadi Zaides, "Archive"

Archivi di danza e di lotta

Il coreografo israeliano Arkadi Zaides trasfigura i video amatoriali dei palestinesi della West Bank alle prese con i coloni israeliani in una danza parossisticaRenato Palazzi


È Arkadi Zaides, coreografo israeliano originario dell’Unione Sovietica, l’autore di uno degli spettacoli più interessanti dell’estate, forse l’esempio più eloquente di quella tendenza a sostituire le metafore della scena con materiali direttamente attinti alla realtà che sta diventando un tratto saliente del  teatro di oggi: in Archive, presentato al festival di Santarcangelo, Zaides parte dai video amatoriali realizzati nei territori occupati della Cisgiordania da un’organizzazione, B’Tselem Camera Project, che ha distribuito delle videocamere agli abitanti palestinesi delle aree più turbolente, perché potessero documentare sopraffazioni e violazioni dei diritti umani. Dunque immagini grezze, spesso confuse, lontanissime da qualunque elaborazione artistica.

In questi filmati, introdotti da didascalie che indicano data e luogo degli avvenimenti, non si assiste a scontri particolarmente cruenti ma a quello che appare come lo stillicidio di una violenza diffusa, costante, fisiologica: coloni fanatici che urlano, che bruciano coltivazioni, che scacciano pastori coi loro greggi, soldati che sparano candelotti lacrimogeni, bande di facinorosi che attaccano i soldati. Sono soprattutto impressionanti le sequenze che riguardano i più piccoli, vittime (ancora) innocenti di un’educazione ferocemente intollerante: bambini che si allenano a lanciare pietre con le fionde, ragazzini di pochi anni che, ubriachi, inveiscono contro un invisibile nemico. In una ripresa fra le più inquietanti si vede una madre che afferra il figlio, in preda a esaltazione alcolica, sollevandolo per i piedi come un animale.

All’inizio il coreografo – folta barba, volto severo, scarsa propensione al sorriso – si limita a proiettarli senza commenti, lasciando che a parlare sia la spoglia eloquenza di quelle riprese incerte, tremolanti. Poi a poco a poco comincia a entrare a sua volta nell’azione, dapprima fermando il gesto, la postura corporea di un singolo soggetto scelto a caso nell’immagine, un dimostrante che grida rivolto verso i piani alti di un edificio, un militare che imbraccia il suo fucile. Via via che lo spettacolo procede, la sua partecipazione si fa però sempre più intensa e continua: egli è lì, in primo piano alla ribalta, ma sovrapposto e mescolato ai video come se diventasse un prolungamento in carne e ossa di quelle figure esagitate che scorrono sullo schermo.

Il suo corpo, che in principio non fa che stagliarsi per pochi istanti davanti alle immagini che lo sovrastano, precariamente bloccato in pochi atteggiamenti stilizzati, quasi puramente dimostrativi, prende in seguito a vibrare, a scuotersi, ad agitarsi con crescente frenesia, come se fosse attraversato da invisibili scosse elettriche. I suoi gesti, da titubanti e un po’ meccanici, si vanno caricando di un muto alone di dolore, come quando, di fronte alle inquadrature di un campo incendiato, mima la fiamma, ma sembra riprodurre la sagoma di un uomo steso a terra che sporge un braccio per chiedere pietà. Seguendo il crescendo di un’incalzante colonna sonora di fischi, strepiti, invettive, il danzatore accelera il ritmo dei suoi interventi fino ad assumere l’ottusa inesorabilità di una macchina impazzita o di un automa sfuggito al controllo.

Ciò che colpisce, dello spettacolo, è in primo luogo lo straordinario senso di coraggio che trasmette. Ma Zaides non è coraggioso perché osserva la furia dei coloni con l’occhio dei palestinesi, che sembra anzi un atteggiamento scontato, tale da garantirgli comunque ampie adesioni, presumibilmente anche in Israele: è coraggioso per il modo con cui, da solo e senza difese, con la dimessa fragilità dei suoi mezzi fisici e delle sue emozioni, sembra impegnarsi in un confronto all’ultimo sangue con l’evidenza, con l’inoppugnabile spassionatezza di una videocamera puntata sull’oggettività della vita quotidiana. Archive evoca lo sgomento, l’inadeguatezza dell’artista alle prese con la verità della vita, ma anche la forza dell’artista che quella verità della vita la modella e la trasfigura facendone una ribollente materia creativa.

La sintesi e l’emblema di questo riscatto espressivo è nel finale, in cui tutto quell’apparato visivo e sonoro si esaurisce, le immagini si arrestano bruscamente, lo strepito delle voci rabbiose si spegne in un denso silenzio: nello spazio scenico improvvisamente vuoto resta unicamente lui che osserva allibito gli spettatori, come per chiedere tacitamente un’indicazione su cosa fare, o per condividere con loro la sconvolgente percezione di avere guardato dentro alla realtà, ma di non essere in grado di fare nulla per modificarla. È un istante sospeso, una fulminea scheggia di incomparabile pathos. Poi, la vita riprende immediatamente il sopravvento.

Visto al Festival del Teatro in Piazza di Santarcangelo. Di Arkadi Zaides è ancora visibile, sino al termine del festival la videoinstallazione Capture Practice

Archive
ideazione e coreografia Arkadi Zaides