“Das Weisse vom Ei (Un ile flottante)”, pièce con la quale Cristoph Marthaler ha deliziato il pubblico della Biennale Teatro di Venezia è l’ennesima riprova della bravura e dello stile del reigsta svizzero, giustamente premiato alla carriera – Maria Grazia Gregori
Fra le due vie possibili per mettere in scena il teatro di Eugène Labiche – le lentezza e la velocità – Christoph Marthaler in questo spettacolo che nasce da una commedia del drammaturgo francese, La poudre aux yeux (la polvere negli occhi) sceglie la prima. Salvo poi, con un’improvvisa piroetta, buttarla all’aria come un gioco di birilli nell’inquietante e strepitoso finale con un’accelerazione comica forsennata in un accavallarsi di gags da lasciare senza fiato. Il Marthaler di Das Weisse vom Ei (Un ile flottante) – per noi Un’isola fluttuante, il pirotecnico, inquieto, straripante e affascinante spettacolo con il quale si è inaugurata la Biennale Teatro del 2015 (dove il regista svizzero riceverà il Leone d’oro, premio che da qualche anno onora i maestri del teatro) è un Marthaler all’ennesima potenza: giochi di parole, sguardi stralunati, fantastica costruzione gestuale, interpretazione formidabile dei suoi attori, intelligenza della visione e quell’apparente gusto di prendersi non troppo sul serio però con la voglia dichiarata di fare teatro con la felicità di farlo.
Come il titolo di questo spettacolo – che certo deriva dal testo già citato di Labiche interpolato però con altri apporti per esempio da un’impensabile poesia di Lewis Carrol detta in inglese come se fosse Shakespeare -, Un ile flottante (che deriva da un famoso dolce francese fatto di agglomerati – isole appunto – di bianco d’uovo montato che galleggiano su di un letto di crema) è gustoso, vagamente instabile ma anche ingannatore: invano, infatti, si può pensare di andare oltre quell’instabilità e mai alla fine troveremo la solidità del tuorlo.
Il titolo, dunque, è una metafora di quella che più volte mi è capitato di definire la “way of theatre” di Marthaler: un equilibrio delicato, un gusto che ti attira, quell’indefinibile “qualcosa” che chi vede un suo spettacolo per la prima volta potrebbe definire “leggerezza” ma che in realtà nasce, si forma e vive su linee estremamente precise, creativamente collegate l’una all’altra. Ed ecco allora che l’apparente hellzapoppin’ iniziale si rivela per quello che è: una magistrale, rigorosa visione registica, del tutto simile a una partitura sonora.
Lo spettacolo comincia con tutti i personaggi al proscenio del Teatro alle Tese all’Arsenale davanti a un sipario rosso fuoco che si presentano uno a uno giocando sulle due lingue – il francese di Labiche e il tedesco della traduzione del premio Nobel Elfriede Jelinek – sulle quali è costruito Un ile flottante proponendosi agli spettatori con un intricato intreccio d’identità, di parentele incrociate, di accelerazioni verbali. Pensi: ecco il vaudeville, ma non è vero. Infatti quando i personaggi spariscono, quasi inghiottiti dal sipario che si apre sull’interno di una casa carica di quadri (soprattutto ritratti) di qualche pretesa, inventata dall’estro di Anna Vierbrock, divisa fra salotto e studio con ampi finestroni che inquadrano un lussureggiante giardino, ecco che la musica cambia: parole e gesti rallentati, sguardi fissi, e un dialogo fra moglie e marito, Monsieur e Madame Malingear, segnato da una noia mortale. La noia, ovviamente, è quella dei personaggi attraverso i quali il regista vuole mostrare la decadenza di una borghesia un tempo altolocata e il suo stanco rituale rotto talvolta da atteggiamenti, parole, qui pro quo fuori di chiave. Lo stesso succede per i piccoli borghesi Monsieur e Madame Ratinois che vorrebbero apparire diversi da quello che sono. Lì il paesaggio cambia e si arricchisce di cose di pessimo gusto: per esempio il trofeo delle corna di un cervo che viene da chissà dove. Entrambi vogliono gettare “polvere negli occhi” alla ricerca di un riconoscimento sociale che non vale più. Il dottor Malingear con tutta la sua prosopopea e la sua risibile arte di fumare il sigaro, infatti, non ha più pazienti e il signor Ratinois, che assomiglia all’Hulot di Tati, che si esibisce in un fulminante gramelot quando parla in tedesco è un ex pasticciere che avrebbe voluto essere altro e le loro mogli, una tutta finto sussiego e l’altra furbetta sono degne di loro.
Succede però che questi due gruppi familiari siano destinati a intrecciarsi: i loro rampolli si amano. Lei, la giovane Emmeline Malingear, è una morbosetta che fa boccucce, all’apparenza un po’ allucinata ma pronta ad apparire in guêpière nel gioco della seduzione. Lui, Frederic Ratinois, sembra un automa, la testa inclinata da un lato, ingessato nella fissità di un ruolo che non è suo: è lui, infatti, a dare lezioni di piano alla fanciulla, ma vorrebbe fare altro. E poi ci sono due personaggi misteriosi: un irresistibile tipo allampanato che interpreta i servitori delle due case, che dissemina le due magioni di animali impagliati a suggerirci che lì, in fin dei conti, tutto è finto e che ci delizia con strepitose filastrocche; una donna che riflette perfino nell’abito la persona ritratta in un quadro come un antenata venuta da un altro mondo e che è, fino al suo lungo monologo interrotto all’improvviso perché troppo lungo dagli altri attori, un’inquietante presenza muta.
Tutto questo avviene fra sedie che si rompono imprigionando i protagonisti in una girandola impazzita, gesti calibrati al millimetro fino alla scioglimento finale. E musica di Dvorak, di Bruck, “Downtown” reinterpretato da Ray Connif, Mozart e Schubert e l’Arlecchinata di Charlie Chaplin, e Bobby Lapointe con la sua musica hawaiana, ma anche sangue che tutti i personaggi perdono dal naso, in un quadro da teatro dell’assurdo che ricorda l’argentino Copi, nel mezzo di giochi di parole ma potrebbero scivolare sul serio sulla buccia di una banana, in un tempo dilatato dove un misterioso ticchettio che sembra scandire la vita dei personaggi, risvegliati all’improvviso da colpi di gong che si disarticolano come marionette, per poi tornare a essere se stessi, maschere ipocrite di una società ipocrita… una parodia, ma nera come in fin dei conti è anche il teatro di Labiche da cui siamo partiti, alla Marthaler.
Das Weisse vom Ei (Un ile flottante)
da Eugène Labiche, Christoph Marthaler, Anna Viebrock, Malte Ubenauf e gli attori
regia Christoph Marthaler
scene e costumi Anna Viebrock
drammaturgia Malte Ubenauf
con Marc Bodnar, Carina Braunschmidt, Charlotte Clamens, Raphael Clamer, Catriona Guggenbühl, Ueli Jäggi, Graham F. Valentine, Nikola Weisse
produzione Theater Basel, Théâtre Vidy-Lausanne
coproduzione Odéon Théâtre de l’Europe, Théâtre National de Toulouse, Midi-Pyrénées, Le Parvis scène nationale Tarbes-Pyrénées con il sostegno di Pro Helvetia – Fondation Suisse pour la culture