“La Répétition” (La prova), nuova pièce di Pascal Rambert vista al festival VIE, è un torrente di parole che tracima a più riprese ma segue uno schema che nulla lascia al caso. Impervia prova per i quattro interpreti, in cui spicca la presenza (ancora) magnetica di Emmanuelle Béart – Enzo Fragassi
Chi si accinge ad assistere a una pièce di Pascal Rambert dovrebbe essere avvertito del fatto che questo autore francese nato negli anni Sessanta non ha un approccio “accomodante”. Non tutti gli spettatori di La Répétition, visto recentemente a Modena nell’ambito del festival Vie, come sempre finestra interessante e preziosa sul teatro internazionale, ne erano avvertiti e qualcuno non ha retto sino al termine, complice anche la durata – due ore e 20 minuti – e una recitazione parossistica (in lingua originale) che a tratti non lasciava il tempo di seguire la sovratitolazione. Da “Vie” era già passata nel 2014, dopo i successi riscossi nel 2011 ad Avignone, l’edizione italiana del precedente lavoro di Rambert, Clôture de l’amour, affidata ai bravissimi Anna Della Rosa e Luca Lazzareschi diretti dallo stesso autore, algido tentativo di sistematizzare e intellettualizzare la fine di un amore. Non avevo assistito personalmente a quella pièce ma l’aveva fatto, più autorevolmente di me, Renato Palazzi, alla cui recensione rimando volentieri. Questa Répétition, riprende non solo due protagonisti dell’edizione originale, Audrey Bonnet e Stanislas Nordey, ma anche la raggelata impalcatura e l’intento programmatico, che è poi lo sforzo di trovare un ordine sintattico alla crisi. Aggiungo che non mi è sembrato uno spettacolo memorabile ma certamente ambizioso nella sua esibita cerebralità, nella verbosità torrenziale che si perde e si ritrova inestricabilmente in volute di parole che mischiano in modo affascinante ma anche irritante passato, presente e futuro, vissuto personale e drammaturgico, pubblico e privato con un segno, mi si passi la semplificazione, inconfondibilmente “francese”.
Poco o nulla accade nella scena spoglia ma eloquente – una palestra adibita a sala prove -, illuminata da Yves Godin con una tavolozza di toni dal caldo al raggelato. In scena sono da subito in quattro: oltre ai due già citati, Emmanuelle Béart e Denis Podalydès. Non dialogano mai fra loro, rendendo con ciò palese quella “rottura”, quella “crisi” di cui solo loro sembrano ostinatamente non rendersi conto. Una crisi che, a partire da uno sguardo scambiato fra Emmanuelle e Denis, colto da Audrey che aveva amato, riamata, lo stesso Denis, come un sassolino scagliato sul parabrezza di un’auto in corsa, produce rapidamente una crepa che si allarga fino a mandare l’intero vetro in frantumi, portando alla dissoluzione una compagnia di teatro composta da un drammaturgo, due attrici e il regista. Ognuno svolge il suo monologo secondo un ordine stabilito dall’autore, che ama dare ai suoi personaggi i nomi degli interpreti che li porteranno in scena, mischiando le carte delle biografie personali con quelle dei personaggi di finzione, nella convinzione che questa risulti spesso più rivelatrice della realtà. Ma il fiume ininterrotto di parole, ricordi di un giovanile viaggio in auto, battute di un dramma che non andrà mai più in scena, considerazioni filosofiche un po’ sconnesse, non sfocia mai nel delta del dialogo a più voci. Comprendiamo a poco a poco che gli amori non corrisposti o troppo anelati, i progetti abortiti, i “se fosse” di una vita trascorsa rincorrendo una fantomatica “struttura” che evoca suggestioni sessantottarde, hanno prodotto solo macerie.
Le macerie delle vite dei quattro protagonisti si trasformano nell’ultimo monologo – quello del regista – in quelle di una generazione che ha fallito nel perseguimento dei suoi confusi ideali e, altrettanto genericamente si appella ai giovani affinché si scuotano dal loro letargico torpore e prendano in mano le redini del loro e nostro destino. Ma il salto dal “particolare” al “generale”, dal “privato” al “pubblico” ha un che di meccanico che non convince.
Tutti e quattro gli interpreti sono ampiamente noti e premiati in patria e qui danno una prova di grande intensità recitativa, ma era senza dubbio sulla prova di Emmanuelle Béart che si appuntava la curiosità del pubblico. Ebbene, quel viso un tempo diabolicamente angelico e magnetico non sarà più tale, ma il talento appassionato di un’attrice che recita “fisicamente” anche quando resta immobile in un lato oscuro della platea non si è certo assopito. Ha solo mutato forma. Non basta tuttavia la prova generosa e impervia di tutti gli attori a salvare la pièce da una pesantezza eccessiva. Però credo che “la prova” imposta al pubblico da Rambert fosse ampiamente prevista e ricercata: un sassolino scagliato contro il parabrezza della nostra apatia. Lo conferma lo spiazzante finale affidato, nella penombra della scena silente, a una ginnasta (la brava Claire Zeller), che la illumina con la sua presenza lieve e gentile, mentre il fruscìo del nastro che disegna abili volute nell’aria fa da sottofondo ai pensieri.
Visto al Teatro Storchi di Modena nell’ambito del festival VIE