È interessante perché rispettoso e innovativo a un tempo l’approccio mostrato da Michele Maccagno a Testori, sotto la direzione di Gigi Dall’Aglio. L‘idea di evidenziare gli aspetti comici, qua e là persino scopertamente goliardici del testo ce la fa cogliere in una luce inedita – Renato Palazzi
È un approccio interessante a Testori quello proposto da Michele Maccagno, un attore dalla vena prorompente e sanguigna, pur venendo da una formazione in gran parte ronconiana: sotto la guida di Gigi Dall’Aglio, un regista che di interpretazioni fuori dai canoni delle opere dell’autore lombardo – dopo Cleopatràs e Mater strangosciàs con Arianna Scommegna – è ormai esperto, Maccagno ha scelto di misurarsi con un testo insolito e poco noto, SdisOrè, una livida riscrittura, tra beffarda e feroce, dell’Orestea, creata nel ’91 per Franco Branciaroli, e ripresa poi una dozzina d’anni fa dal Teatro dell’Elfo, con Ferdinando Bruni protagonista e la regia di Francesco Frongia. Ma lui l’ha affrontata davvero a modo suo, imprimendovi un marchio del tutto personale.
Già il tono in sé del copione sembra favorire una certa libertà di invenzione: qui la lingua di Testori, quel misto di spagnolismi, latinismi e dialetti del Nord Italia che dall’Ambleto in poi ispira il suo teatro, assume un piglio prevalentemente giocoso, con le rime improntate a un gusto derisorio («tremisco / e tutta dentro me stremisco» ) ben lontano dal tratto comunque più alto dei Tre lai e di altre composizioni coeve, così come da quello del consimile Edipus, dove il lazzo greve si accompagnava sempre a un acre sentore di tragedia. A ciò si aggiunge il tratteggio caricaturale dei personaggi, tutti affidati a un solo attore, con un effetto talora parodistico, e la sovrabbondanza di riferimenti intestinali e genitali, che acuiscono il senso di una classicità degradata.
Maccagno, però, nello spettacolo presentato allo Spazio Tertulliano di Milano, e prima ancora in una serie di prove aperte nel salotto di Casa Testori a Novate, va oltre: accentua ancor più questi aspetti ironici e graffianti, riempie l’azione di gag, di piccole trovate spiazzanti, di oggetti incongrui, di gesti stralunati. L’allestimento di Dall’Aglio si distingue fin dallo spazio scenico, che ha un’impronta assai poco testoriana: un praticello d’erba finta, con alcune pozze rotonde piene d’acqua, un blocco di marmo a suggerire la tomba di «Agamennòn assassinatos» e, sul fondo, una specchiera da camerino, con le lampadine intorno, dove «il monologante» indossa a vista, di volta in volta, i rudimentali panni dei protagonisti e dell’estemporaneo narratore.
Eccolo, allora, vestito di una sorta di ampia tonaca nera, col sottanone né maschile né femminile, trasformarsi ora in un «Eghistos» balbuziente e sottomesso, una nullità quasi patetica, ora in una Clitennestra con gli occhiali da sole da diva, «vacca sconsacrata», carnale e grossolana, ora in un’Elettra evocata grazie a un drappo di stoffa avvolto intorno alla testa a mo’ di velo, la figura abbozzata forse con più cattiveria, una zitella acida e incattivita, bisognosa di imporsi, ansiosa di rivalsa nei confronti della madre. Ad accompagnare queste sommarie metamorfosi, il pianista Emanuele Nidi esegue dal vivo le musiche da lui stesso composte, facendo da contraltare in qualche modo astratto a quel flusso di parole così impregnate di materia e di fluidi corporei.
Tra barchette di carta e interiora umane versate da un secchio, Maccagno esalta la dimensione folle del testo. Il culmine della sua deformazione grottesca è nell’accoppiamento di Egisto e Clitennestra, rappresentato attraverso un re e una regina tatuati sulle ginocchia nude dell’attore. Il finale, tuttavia, in cui Elettra spinge Oreste ad arringare il popolo dal balcone, ed egli non accetta l’investitura, è in linea col Testori delle opere maggiori, che si oppone a ogni sorta di potere. E negli ultimi versi, quando il matricida rifiuta l’assoluzione di Atena, e parte in cerca di un impossibile perdono, decretando che sono «meglio le Furie (…) ch’el vostro / chivile pattegghiar / la vostra chivile, / inesistente pase!», non c’è più traccia della buffoneria esibita fino ad allora.
In questa ricerca di un’irruenza comunicativa, per così dire, più elementare e diretta qualcosa del testo va fatalmente perduto: non sempre l’attore sembra in grado di rendere pienamente il ritmo poetico di Testori, la complessità di quei suoi costrutti apparentemente ingenui, infantili e insieme densi di un’incrollabile tensione stilistica. Ma l’insieme funziona, e l’idea di evidenziare gli aspetti comici, qua e là persino scopertamente goliardici della scrittura testoriana ce la fa cogliere in una luce inedita, fuori da un certo tormentato cliché di «carne e sangue» ormai acquisito: lo stesso Testori, d’altronde, apprezzava molto che Franco Parenti, nel dare voce alla mitica “trilogia dello scarozzante”, fra una risalita nel seme paterno e una strega partorita dalle sue stesse viscere mettesse lampi d’avanspettacolo e sfrontate battutacce.
Visto a Casa Testori, Novate Milanese
SdisOrè
di Giovanni Testori
regia: Gigi Dall’Aglio
musiche composte ed eseguite dal vivo da Emanuele Nidi
con: Michele Maccagno