Personalità di spicco del nuovo teatro argentino, Daniel Veronese ha scritto un testo su una società minata fin dalle sue fondamenta familiari, in cui il regista Roberto Rustioni opera di cesello, orchestrando magistralmente un cast ben affiatato – Renato Palazzi
Daniel Veronese è una delle personalità di maggiore spicco del fibrillante, nuovo teatro argentino di questi anni. È un regista atipico, che anche nel mettere in scena opere altrui, grandi classici del presente o del passato, tende a riscriverli, a decontestualizzarli, a contaminarli con altri linguaggi o altri livelli di realtà. A maggior ragione, dunque, si possono cogliere queste strategie di spiazzamento nei testi dei quali è egli stesso l’autore: come si vede in Donne che sognarono cavalli, l’inquietante pièce presentata da Roberto Rustioni al Festival delle Colline Torinesi, il suo stile sottilmente visionario si cala totalmente nelle zone buie della vita, ma dalla vita prende anche le distanze, la traspone su un piano sinistramente onirico.
Donne che sognarono cavalli è la raffigurazione di un piccolo inferno domestico, la riunione conviviale di tre fratelli e delle loro rispettive consorti, tutti lividamente gli uni contro gli altri, tutti misteriosamente complici nel tenersi aggrappati agli equilibri di questa intolleranza reciproca. Ma lo spaccato esistenziale si sgrana di continuo, mostra crepe evidenti, trappole, false piste: la cronologia degli avvenimenti risulta palesemente alterata, la versione che di essi danno i vari personaggi sembra ogni volta diversa. I dialoghi partono su un tono compiacente e scivolano in improvvisi accessi di furia, o viceversa. Certi scambi verbali sono talora incoerenti, lo sviluppo del discorso cade spesso nel vuoto.
È ovvio che Veronese vuole ritrarre una società malata, minata dalle tare di un passato indicibile. Il testo parla di un fratello che ha affossato l’azienda di famiglia, di un altro fratello, ex-pugile, che forse ha un cancro al cervello, di una moglie che ha venticinque anni più del marito, di un’altra che ne ha trentacinque in meno, e non lo ama. Parla di sotterfugi, di tradimenti, di tresche clandestine. Ma il suo vero nucleo è un altro, e non verrà mai del tutto chiarito: Lucera, la più giovane, è probabilmente figlia di una coppia di desaparecidos, morti in circostanze oscure cui non sarebbero estranei il marito e uno dei fratelli. Da questo segreto derivano strane apparizioni, tensioni, aggressioni vere o presunte.
In tutto l’arco della vicenda ricorre il tema dei cavalli: una delle mogli, Ulrika, sta scrivendo una profetica sceneggiatura in cui una donna che ha commesso un crimine si affaccia alla finestra e vede passare dei poliziotti a cavallo, che la salutano. Un’altra, Bettina, accusa il marito di avere ucciso il loro pony, che invece secondo lui si sarebbe suicidato. Lucera è stata indotta a credere che la morte dei genitori sia stata causata da un cavallo impazzito. In un suo delirio, pensa di aver seguito una coppia di vecchi in una stanza nei sotterranei dell’edificio, da cui è uscita una mandria di cavalli al galoppo. I cavalli, secondo l’autore, evocano fantasie sessuali, ma anche un simbolo di liberazione: e Lucera, alla fine, è l’unica a liberarsi abbattendo a revolverate gli odiosi congiunti.
Donne che sognarono cavalli è un testo complesso, dai molti strati, che è difficile porre in relazione gli uni con gli altri. Ma decifrarlo del tutto non è in fondo neppure necessario: ha lo scopo di trasmettere la sensazione di un’umanità fuori posto, preda di uno scardinamento interiore, e assolve in pieno alla sua funzione. La scrittura di Veronese sembra contenere in sé anche le chiavi della sua realizzazione registica: basta vedere la scenografia ideata da Sabrina Cuccu, una specie di cucina con le pareti tappezzate da pagine di giornale, un cubicolo disadorno, un po’ soffocante, col pubblico a distanza ravvicinata, per sentirsi trascinati in quelle tipiche atmosfere dei teatristi argentini, in quell’immaginario sdrucito che è anche di Spregelburd o di Tolcachir.
Rustioni, nel corpo a corpo con questa materia sfuggente, fa soprattutto un gran lavoro di cesello, costruendo parola per parola, gesto per gesto un delicato intarsio di umori e stati d’animo, lasciando la trama immersa in tutta la sua sghemba ambiguità. È mirabile soprattutto il suo intervento sui giovani attori, orchestrati magistralmente in un arduo esercizio di finezza interpretativa: fra accuse, reticenze, frustrazioni sono tutti convincenti, da Valeria Angelozzi, una Lucera insieme dura e smarrita, a Michela Atzeni, un’Ulrika esuberante e disinibita, a Maria Pilar Perez Aspa, una Bettina sottomessa, lamentosa, da Fabrizio Lombardo, il fratello Rainer, violento e greve, a Valentino Mannias, un ombroso Roger, a Paolo Faroni, un Ivan tormentato da gelosie e insicurezze.
Visto alle Fonderie Limone di Moncalieri. Repliche il 7 e 8 luglio al festival “Inequilibrio” di Castiglioncello
Donne che sognarono cavalli
di Daniel Veronese
adattamento e regia: Roberto Rustioni
scene e costumi: Sabrina Cuccu
luci: Matteo Zanda
con: Valeria Angelozzi, Maria Pilar Perez Aspa, Michela Atzeni, Paolo Faroni, Fabrizio Lombardo, Valentina Mannias