Federica Fracassi, diretta da Renzo Martinelli, ci mostra in modo superbo la parola testoriana che non è mai stata casta, ma umana, disperatamente umana nel suo mescolare abissi e altezze, sentimento e carnalità – Maria Grazia Gregori
C’è sempre una prima volta. Il primo incontro di Federica Fracassi con il mondo di Giovanni Testori è avvenuto quest’estate nell’ambito di Stanze. Si trattava, allora, più di una “testoriade” che di uno spettacolo vero e proprio che però dimostrava, da parte dell’attrice, un desiderio reale di misurarsi con una drammaturgia per lei del tutto nuova. Allora l’attenzione sua e del regista Renzo Martinelli si era focalizzata sui Tre lai che il grande scrittore aveva composto proprio poco prima della sua morte, un excursus emozionale che spaziava fra le tre protagoniste – Cleopatràs, Erodiàs, Mater Strangosciàs – dando vita, nella estrema diversità dei personaggi e delle situazioni a un grande, tragico interrogarsi sui temi della vita e della morte, sul senso dell’esistenza ma anche della scelta, della capacità di vivere (e di morire) nella prospettiva di qualcosa d’altro, al di là del qui ed ora. Tre lamenti che sono tre gridi, tre ribellioni, tre modi di guardare alla vita e alla morte tanto più disperati quanto più si ha coscienza che il destino di ognuno ha un senso venato di ribellione o di accettazione.
Fin da quella volta mi è sembrato che questa attrice così intuitiva, profonda, allo stesso tempo laica e spirituale avesse scelto di confrontarsi con un grande, non facile drammaturgo gettando le basi di un incontro che per lei era importante, anzi vitale. Vedendo in questi giorni in scena al Teatro i di Milano Erodiàs è impossibile non rendersi conto di come il viaggio testoriano di Federica si sia trasformato in una precisa scelta di campo nell’interpretazione di un personaggio come quello centrale di Erodiade, per l’autore Erodiàs, già toccato dal senso di una sacralità nascente ma colmo di visceralità, erotismo e soprattutto della disperazione di dover contendere il desiderato Battista con qualcosa che non conosce ma di cui avverte la potenza nel disprezzo, nel rifiuto di lui nei confronti di quel solo modo d’amare che lei conosce: sensuale, fisico, violento, perfino sanguinario. Un rifiuto di cui Erodiàs vuole vendicarsi, ma che, allo stesso tempo le fa paura, la intimidisce addirittura, lasciandola impreparata nel volerlo combattere.
Tutto avviene lì di fronte a noi ma in realtà – credo per sottolineare che si tratta di una rappresentazione – c’è una parete trasparente a separarci dal quel delirante monologare della protagonista che ci appare con la barba, che poi si toglierà, del tutto simile al Battista uscendo quasi dal ventre di un grande manichino senza testa come se fosse una sua filiazione. Che tutto avvenga al di là di una parete trasparente o di una vetrina o piuttosto, come a me pare, di un misterioso luogo delle apparizioni, quasi un teatrale trovarobato, poco importa. Quello che conta è che il delirio erotico di Erodiàs le crea attorno un mondo allo stesso tempo immaginario e concreto: la sua Salomè è una snodata, minuscola marionetta e il Battista è, per così dire, “citato” dall’apparizione di un fallo che potrebbe essere ciò che lei desidera di più da lui. Eppure anche all’interno di questo delirio amoroso Erodiàs percepisce il senso di una forza che la supera nelle maledizioni e nei rifiuti dell’uomo, di cui, non potendolo avere, ha richiesto la testa mozzata. Un profondo senso d’impotenza, una disperazione assoluta che può essere rotta solo con l’uscita fuori dallo spazio chiuso, da quella specie di teca mortuaria che la rinchiude insieme al fantasma del Battista ma anche di Erode e di Salomè.
Martinelli costruisce attorno a questa Erodiàs non solo l’involucro-prigione in cui la rinchiude ma anche una partitura di suoni, talvolta un po’ invadenti, che tuttavia sottolineano quell’atmosfera da incubo che pervade il monologo-delirio della protagonista, che – attraverso alcune battute registrate che si alternano alla sua viva voce – agisce come se il personaggio si sdoppiasse nel suo essere lì sulla scena e nel suo pensiero.
Colpisce duro, nella sua apparente semplicità, il modo con cui si chiude lo spettacolo, dove Federica Fracassi, che si è liberata degli abiti che indossava, esce in guêpière color carne dal luogo in cui è rinchiusa. Non più donna desiderante, sanguinaria ma solo “donna”che seduta vicina a noi, dandoci le spalle, si interroga sul senso della propria tragedia, di una vita futura che non conosce, forse finalmente libera da quella che fino ad allora ha costituito la sua armatura, il suo vivere, restituendoci in modo superbo la parola testoriana che non è mai stata casta, ma umana, disperatamente umana nel suo mescolare abissi e altezze, sentimento e carnalità.
Visto al Teatro i di Milano. Repliche fino al 5 dicembre 2016
Erodiàs
Produzione Teatro i
di Giovanni Testori
con Federica Fracassi
regia di Renzo Martinelli
dramaturg Francesca Garolla
assistente alla regia Irene Petra Zani
suono Fabio Cinicola
luci Mattia De Pace
consulenza artistica Sandro Lombardi
creazione costume d’epoca Cesare Moriggi
consulenza e realizzazione oggetti di scena Laura Claus
con il sostegno di Next / Regione Lombardia
E’ una sensazione di piacere quella che ho provato all’uscita dal Teatro i, dopo la visione di Erodiàs: il piacere di essere in una città, Milano, che, pur con tutti i difetti e le contraddizioni di una grande città, ti concede il lusso di assistere ad una rappresentazione teatrale che accarezza la definizione di capolavoro.
Un capolavoro il testo, forte, viscerale, autentico nel contenuto, nel linguaggio, nella cadenza; un capolavoro la prova d’attrice di Federica Fracassi: fin dai primi minuti, in cui il suo volto, cinto di barba ed emergente tra le braccia di un manichino senza testa, si produce in una serie di smorfie, occhiate talmente espressive da catapultarti immediatamente nel mezzo del flusso di coscienza che segue.
Non c’è dubbio: questo testo, con questa attrice, avrebbe potuto essere rappresentato anche senza alcuna messinscena: ma la regia di Martinelli gli dona varietà, impedisce che si possa perdere l’attenzione anche per un solo secondo: nulla è di troppo, dai pochi elementi in scena, ai rumori, alla voce registrata, alla parete trasparente che separa il pubblico dalla protagonista; così vicina, così fisicamente vicina al pubblico (il bello di un piccolo teatro, peraltro gremito il 2 dicembre), da poterne percepire l’intenso trasporto con cui ha vestito la carne stessa del personaggio: grazie.
Raffaele Cauzzi