Tra le perle riscoperte dalla cosiddetta “Donizetti-Renaissance”, Maria Stuarda si impone come una delle più splendenti. Il Carlo Felice, dopo il fortunato Roberto Devereux del 2016, prosegue con scelta azzeccata nel filone delle regine Tudor donizettiane. Applauditissimo il cast canoro. Non nuova ma gustosa la regia, giocata sul tema del teatro nel teatro – Davide Annachini
Tra le perle riscoperte dalla cosiddetta “Donizetti-Renaissance” – un fenomeno che a partire dalla famosa Anna Bolena scaligera del 1957 (complici la Callas e Visconti) innestò un inarrestabile ed entusiasmante recupero del repertorio dimenticato del compositore bergamasco – Maria Stuarda si impone come una delle più splendenti, a dispetto di una fortuna che già nell’Ottocento si rivelò ingiustamente accidentata. Il soggetto attinto dalla tragedia di Schiller, incentrata sulla rivalità non solo politica ma anche amorosa delle due regine per il favorito Leicester e parecchio romanzata al punto da fissare il suo clou nel teatralissimo scontro tra le due cugine (storicamente mai avvenuto) e in una visione quasi angelicata della regina scozzese rispetto a quella collerica di Elisabetta I, fu oggetto della censura borbonica già prima del debutto, a Napoli nel 1834. Non era ammesso che una regina prima insultasse senza tanti complimenti un’altra e poi confessasse le sue colpe (tra cui un uxoricidio) davanti al pubblico. Per questo l’opera fu sottoposta a un frettoloso cambio di ambientazione (la Firenze del 1200) e di titolo (Buondelmonte), ma anche così – e poi nella sua stesura originale – non conobbe lunga storia. Forse all’epoca, come pure nel primo importante revival moderno – avvenuto nel 1967 al Maggio Musicale Fiorentino –, sfuggì a certa critica l’assoluta levatura di molte pagine, che nell’ultimo atto toccano i vertici del Donizetti più ispirato. E di pari passo si impongono la forte caratterizzazione delle due primedonne e il taglio teatralissimo, che fanno della Stuarda un capolavoro tra i più rappresentativi del melodramma romantico italiano.
Il tempo le ha dato finalmente ragione, tanto che da mezzo secolo l’opera è entrata in repertorio e conferma a ogni ripresa entusiasmo da parte del pubblico, soprattutto quando in campo agiscono due interpreti di razza, in grado di gareggiare per bravura vocale e personalità.
Il Carlo Felice di Genova, dopo il fortunato Roberto Devereux dell’anno passato, ha voluto proseguire nel filone delle regine Tudor donizettiane e si può dire che la scelta gli abbia dato ragione, quantomeno nel riscontro del pubblico, forse non numerosissimo ma quanto mai caloroso. Ancora una volta ha funzionato la scelta del cast, in cui tutti hanno risposto validamente alle esigenze vocali ma soprattutto alla caratterizzazione dei rispettivi ruoli. Elena Mosuc, soprano lirico-leggero di lunga esperienza belcantistica, ha da tempo affrontato ruoli di maggior impegno drammatico come Stuarda, per quanto la scelta abbia inevitabilmente lasciato i segni sulla sua vocalità, un tempo fluida ed estesissima. Ora si possono percepire nel passaggio e nei primi acuti oscillazioni e una certa difficoltà a gestire l’emissione, senza che questo precluda comunque l’ascesa ai sovracuti, apparentemente sempre penetranti e sicuri. Ciò non toglie che la cantante sappia garantire momenti di rara suggestione, soprattutto nel canto in piano, come di mostrare accenti e slanci di notevole intensità, al punto da convincere quasi più sotto il profilo espressivo che sotto quello prettamente belcantistico, punto di forza invece della maggior parte delle famose virtuose che si sono cimentate nella parte. Lo ha dimostrato proprio l’appuntamento con la celebre invettiva a Elisabetta “Figlia impura di Bolena”, su cui tante hanno sdrucciolato e che invece la Mosuc ha risolto con un fraseggio tagliente e percussivo da cui il personaggio ha preso progressivamente il volo, con rilievo e forza ammirevoli. Il pubblico le ha tributato un successo personale, come anche all’Elisabetta di Silvia Tro Santafé, mezzosoprano che ha dimostrato di saper lavorare sulla sua vocalità, portandola dai profondi ruoli contraltili a quelli quasi sopranili come questo con una nitidezza e uguaglianza di suono nitidissime e con un senso del fraseggio sempre incisivo e misurato. Con due primedonne agguerrite e di per sé già protagoniste per volere dell’autore, un tenore di rilievo come Celso Albelo rischiava di fare il cavalier servente, dato che quello di Leicester non è ruolo in grado di competere con quelli delle due regine. Per questo ha fatto valere al meglio la sua qualità lirica, morbida e avvolgente, nelle bellissime “cantilene” in cui si caratterizza la sua parte di amante diplomatico, guadagnandosi poi gli onori sul campo grazie ai suoi fulminanti sovracuti, che non hanno mancato di centrare il segno. Molto accorato il Talbot di Andrea Concetti, giustamente cinico il Cecil di Stefano Antonucci e funzionale l’Anna di Alessandra Palomba, che completavano un cast applauditissimo.
I suoi meriti, al di là di certi tempi fin troppo indugianti, se li è guadagnati anche Andriy Yurkevych, direttore di bel respiro donizettiano, in grado di sostenere il canto quanto l’azione, come una valida risposta da parte degli organici genovesi.
Lo spettacolo sembrava conformarsi al ricordo del precedente Devereux, di cui rievocava (o forse recuperava) gli essenziali elementi scenici di Monica Manganelli e alcuni costumi del coro, mentre puntava all’effetto grazie a quelli monumentali e coloratissimi disegnati da Gianluca Falaschi per i protagonisti, che anche nel caso degli interpreti maschili esibivano gonnelloni non sempre intonati alla stazza del cantante o che, nel caso della protagonista, la vedevano salire al patibolo con una vestaglia in continua lotta con i chiodi del palcoscenico e di sicuro più intonata alla pazzia di Lucia di Lammermoor. Da parte sua Alfonso Antoniozzi ha giocato la regia sulla consumata idea del teatro nel teatro, con le gustose controscene delle due primedonne in camerino, che tra le quinte si scambiano gli augurali toi-toi per poi insultarsi in scena. Come a dire che le scaramucce tra dive rivali (e leggenda vuole che alle prove per la prima napoletana le due protagoniste arrivarono davvero alle mani) nel teatro possono arrivare a reggere le sorti di un’opera intera.
Visto al Teatro Carlo Felice di Genova il 21 maggio
Maria Stuarda
tragedia lirica in due atti
libretto di Giuseppe Bardari
musica di Gaetano Donizetti
Maria Stuarda, regina di Scozia: Elena Mosuc
Elisabetta, regina d’Inghilterra: Silvia Tro Santafe
Roberto, conte di Leicester: Celso Albelo
Giorgio Talbot: Andrea Concetti
Lord Guglielmo Cecil: Stefano Antonucci
Anna Kennedy: Alessandra Palomba
Direttore d’orchestra: Andriy Yurkevych
Regia: Alfonso Antoniozzi
Scene: Monica Manganelli
Costumi: Gianluca Falaschi
Luci: Luciano Novelli
Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice
Maestro del Coro, Franco Sebastiani
Allestimento in coproduzione tra Fondazione Teatro Carlo Felice e Fondazione Teatro Regio di Parma