Ritratto di donna araba che guarda il mare

L’ambiguità permea la pièce di Davide Carnevali sull’incapacità di comunicare realmente fra popoli diversi. La raffinata regia di Claudio Autelli contribuisce alla riuscita di questo inquietante teorema esistenziale, che si trasforma in un pungente monito a guardarsi da generalizzazioni e luoghi comuniRenato Palazzi


Ritratto di donna araba che guarda il mare è un testo dichiaratamente ambiguo fin dal titolo, dal momento che la protagonista, l’abitante di un’imprecisata città del Nord Africa affacciata sul Mediterraneo, a un certo punto rivendica fermamente la sua non appartenenza alla cultura araba, attribuendo il fatto di essere identificata con essa alla superficialità e alla cattiva informazione dei visitatori. Sono ambigui i personaggi, che sembrano cambiare il loro punto di vista nel corso della vicenda. Ed è ambigua la vicenda stessa, che tra menzogne e versioni distorte dei fatti culmina forse in un tragico fatto di sangue. Oppure potrebbe trattarsi semplicemente di un sogno, di un’ipotesi o di una mera fantasia visionaria.

L’ambiguità non è solo nella trama, essa permea in profondità la scrittura di questa pièce di Davide Carnevali, ne riflette la sostanza più autentica. Quelle situazioni dai contorni indefiniti, quelle conversazioni che assumono di continuo contenuti diversi a seconda di chi parla e di chi ascolta, quelle due figure che si seguono e si sfuggono, si avvicinano e si allontanano ogni volta l’una dall’altra sono per l’autore la metafora di una distanza più assoluta: sono la cifra di un’incapacità di comunicare fra popoli diversi, l’espressione di un pregiudizio – che Carnevali attribuisce soprattutto agli europei, troppo convinti della propria superiore civiltà per cercare di porsi in relazione con altre usanze e tradizioni – di cui l’andamento sfuggente degli avvenimenti non è che la naturale conseguenza.

Uno straniero dalle attività misteriose, forse un artista, forse un avventuriero coinvolto in qualche losco affare entra in contatto con una donna che ha visto alla spiaggia in compagnia di alcune amiche. All’inizio lui pare voler esercitare il proprio potere di maschio evoluto nei confronti di lei, che invece gli resiste, rifiuta il ruolo di preda designata. Poi, a poco a poco, il rapporto si inverte, è lei a mostrasi emancipata, a chiedergli di partire insieme, mentre egli la evita, la respinge. Allora la donna, per tutelare il proprio buon nome di fronte alla sua gente, si rivolge al fratello propinandogli una storia fasulla sull’europeo che vorrebbe comprarla per portarsela via, e spingendolo così a un gesto vendicatore.

Ci sarà realmente un agguato notturno, uno scontro fra i due che degenera all’apparire di un pugnale e di una pistola? O basterà l’intervento del fratello più piccolo a mutare i destini di entrambi? In questo senso il finale resta (parzialmente) aperto, come d’altronde molti altri passaggi dell’intreccio.

La raffinata regia di Claudio Autelli prolunga questa dimensione mentale del testo ambientandone gli sviluppi in una sorta di città-miraggio, un ambiente urbano in miniatura ricostruito su un tavolino al centro della ribalta, con modellini di edifici che vengono ripresi da una videocamera e proiettati su uno schermo. Per aggiungere al tutto un’ulteriore stratificazione simbolica, le vie e le piazze del plastico sono rivestite dai fogli del copione stesso, di cui si leggono di sfuggita alcune frasi stampate, come se il tutto non potesse avvenire che nello spazio astratto della pagina. Gli attori, disposti attorno al tavolino, danno vita con bella intensità a un’azione immobile, che si sviluppa unicamente attraverso il concatenarsi evocativo delle parole.

Ne deriva una parabola tesa, inquietante, uno spietato teorema esistenziale che si trasforma in un pungente monito a guardarsi da generalizzazioni e luoghi comuni, anche se forse l’immagine dell’occidentale che arriva e prende cinicamente ciò che vuole rischia a sua volta di cadere nel cliché. Lo spettacolo mi è piaciuto per l’atmosfera sospesa, per l’abile tecnica compositiva che alterna di continuo la forma drammatica a quella narrativa, lo scambio verbale fra i personaggi e la mera descrizione di ciò che fanno o intendono fare. Nella seconda parte la lucidità dimostrativa di Carnevali tende un po’ ad aggrovigliarsi, prende percorsi labirintici che a mio avviso non sono proprio indispensabili a trasmettere i significati messi a fuoco dall’autore.

Visto al Teatro Franco Parenti di Milano. Repliche fino al 25 giugno 2017

Ritratto di donna araba che guarda il mare
di Davide Carnevali
regia: Claudio Autelli
scene e costumi: Maria Paola Di Francesco
disegno luci: Marco D’Andrea
suono: Gianluca Agostini
con: Alice Conti, Michele Di Giacomo, Giacomo Ferraù, Giulia Viana
produzione LAB121