Al suo terzo incontro con un titolo del repertorio ballettistico la sudafricana Dada Masilo incontra il mito di Giselle e ne coglie pienamente i simboli e i significati, rigenerandoli attraverso la propria cultura. – Silvia Poletti
La bella Dada Masilo è tornata in Italia ( a Romaeuropa, al Comunale di Ferrara dove l’abbiamo vista e infine domani al Festival Aperto, a Reggio Emilia) con la sua versione di Giselle. Nuovamente ispirata da un grande personaggio del repertorio del balletto – dopo Swan Lake e Carmen – la danzatrice e coreografa sudafricana affonda nella perfetta drammaturgia del titolo -il cui padre era, non per nulla, Theophile Gautier- e trova pertinenti agganci con la cultura della sua terra, le sue superstizioni e leggende. E così facendo da un lato attesta l’assolutezza di ciò che si chiama classico, variamente traducibile ma pur sempre distinguibile nei suoi assunti fondamentali; dall’altro ne conferma l’ adattabilità a diverse culture, tempi e latitudini ( un’altra versione di Giselle filtrata dalla cultura anglopakistana è quella acclamata, di Akram Kahn ora in scena a Londra). In più affascina perché ancora una volta permette di comprendere con quale sguardo – e comprensione- autori ‘estranei’ alla tradizione ballettistica riescano a guardare non solo al libretto, ma proprio al materiale coreografico/musicale dell’originale, ne traggano anche spunti linguistici e tematici, e con amorevolezza non manchino di rendervi omaggio.
Non più in Alta Slesia nel medioevo romantico, ma nelle campagne sudafricane descritte in apertura da un evocativo disegno di paesaggio campestre a firma di William Kentridge la storia si dipana ben nota, tra un ricco fedifrago che irretisce una ragazzina ingenua; una madre rozza e pedestre che però percepisce l’incombente tragedia; un innamorato geloso che svela l’inganno e il presago sogno in cui la protagonista sa che il suo destino finale sarà quello della vendicativa Willi, non morta che inesorabile punisce i traditori. Tra i chiassosi vocii dei contadini e della madre ubriacona nelle scene del villaggio e danze atletiche e vigorose in cui si condensa l’energetico linguaggio fisico della coreografa – capace di sintetizzare in un intenso melting pot diverse ascendenze ( dalle forme etniche al balletto)- si colgono anche delicati rimandi alla versione progenitrice di Coralli-Perrot nei gesti aulici e nella entrata classicheggiante di Albrecht, nel dono della collana di Bathilde e soprattutto nel fiore bianco, simbolo di sentimento innocente, che Giselle tiene tra le mani dopo il suo incontro d’amore – sensuale e istintivo- con il traditore.
A stringere ancor più un legame con l’originale pur facendo risonare con risolutezza ritmi e melodie africane è la bella partitura originale di Philip Miller: per la prima volta nei suoi remake Masilo sceglie una musica che sia fortemente radicata nelle sue origini; ma anche qui l’invenzione non manca di intessersi con significativi passi ‘drammatici’ della partitura di Adolph Adam. Se la prima parte scorre chiara e intensa, nella scorrevole leggibilità, la parte dedicata al superumano, alle non-morte che reclamano vendetta risulta ancora più efficace. Una Myrtha sciamana, con scettro caudato e lunghe trecce richiama dall’ al di là gli spettri dolenti e assatanati. Del resto le Willis non sono forse vampiri? Del resto nella favolistica afro non ci sono leggende di spiriti dei morti implacabili e cruenti? Vestite di rosso queste anime dolenti e furiose vorticano irate: percuotono la terra, la pestano, ne fanno vibrare le viscere. Una sarabanda dalla frenesia tellurica, squassante travolge Hilarion e poi Albrecht, questa volta privo della pietà cristiana della sua innamorata.
Dada rivendica proprio questa scelta drammaturgica come l’elemento forte della sua lettura. In verità non è tanto questo quanto proprio aver saputo costeggiare il classico e trovarne risonanze vere nel proprio background culturale a dare validità al suo progetto. Se tutto sembra ancora soprattutto descrittivo più che empatico, il risultato infatti funziona, anche grazie alla estroversa ma controllata qualità dei suoi ottimi danzatori.