Come da tradizione abbiamo seguito il Rossini Opera Festival che quest’anno taglia il traguardo del quarantennale. Luci ed ombre ma sempre grande musica nel nome del grande pesarese. Si comincia con Semiramide.– Davide Annachini
I quarant’anni del Rossini Opera Festival sono un pezzo di storia del teatro lirico non solo per un passato a dir poco glorioso ma per l’importanza musicologica che la rassegna pesarese ha avviato sin dai primissimi anni Ottanta nel recupero del suo autore. Un musicista di enorme importanza e dalla produzione fluviale, Rossini, che negli anni ha conosciuto una riabilitazione fondamentale per quanto riguarda il suo repertorio serio e in buona parte anche giocoso, visto che al di là del Barbiere di Siviglia poco o nulla si rappresentava sino a cinquant’anni fa del suo teatro. In questo il R.O.F. ha avuto una responsabilità decisiva, che non si è limitata solo alla promozione delle edizioni critiche di tutte le partiture rossiniane, al recupero di uno stile esecutivo filologicamente corretto, alla scelta dei migliori interpreti – che spesso hanno conosciuto il loro lancio internazionale proprio a Pesaro – ma anche alla proposta di allestimenti di grande impatto e intelligenza registica.
In epoca di ristrettezze in cui versano tutti i teatri, il R.O.F. non è mai venuto meno al suo livello, dando magari più spazio ai giovani e alle coproduzioni, che hanno guardato a proporre sempre qualcosa di stimolante nella rilettura delle opere. Quest’anno le nuove messinscene erano due (Semiramide e L’equivoco stravagante), più una ripresa (Demetrio e Polibio), tutte a firma di registi di prestigio anche se accolte con esiti diversi da parte del pubblico. Per esempio lo spettacolo di Graham Vick è stato decisamente contestato alla prima di Semiramide, per una regia che, pur nelle intuizioni suggestive di ribaltare ruoli e relazioni tra i personaggi, lasciava spesso confusa e forzata la narrazione di un’opera già di per sé complessa e monumentale.
Il protagonismo assegnato ad Arsace, prima bambino e poi fanciullo, spogliandolo dei panni maschili del “travesti” (consueti nell’ opera seria rossiniana) a favore di quelli femminili propri dell’interprete donna, comportava di conseguenza un approccio lesbo da parte di Semiramide, invaghita del giovane di cui ignora essere madre. Questo non impediva all’ iniqua regina babilonese di intrattenere anche una relazione sadomaso con Assur, l’altro perfido della storia ispirata alla tragedia di Voltaire, con risvolti piccanti forse un po’ troppo espliciti e pecorecci, come quello di colpire le parti basse da parte dell’una per sedare i bollori dell’altro.
La smania di provocare a priori con alcune trovate spesso fini a se stesse, tipica dei suoi spettacoli senili, ha portato un grande regista come Vick a far passare in secondo piano quanto c’era di buono nella sua messinscena, che sotto l’aspetto psicologico presentava soluzioni interessanti, come anche in certi forti segni scenografici di Stuart Nunn, fatta eccezione per il gigantesco orsacchiotto celeste (legato all’infanzia di Arsace) e per i costumi, quasi mai centrati sui cantanti che li avrebbero dovuti indossare. Infatti la protagonista, Salome Jicia, conciata come una Giuni Russo in giacca e pantaloni, più che una regina sembrava una segretaria d’ufficio, perdendo l’autorevolezza della primadonna che la stessa vocalità del soprano georgiano, contenuta e priva di grandi voli virtuosistici, stentava a restituire se non sul piano espressivo, dove l’interprete ha dato il meglio di sé. Interessante per presenza e qualità timbrica – note gravi a parte, alquanto artificiose per simulare la voce del contralto – l’Arsace del mezzosoprano Varduhi Abrahamyan, incisivo per vocalità suggestiva e personalità d’interprete l’Assur diabolico del basso Nahuel Di Pierro, impavido, anche se piuttosto forzato sugli acuti, l’Idreno di Antonino Siragusa, tutti al servizio di un’esecuzione che trovava il suo punto di forza nella direzione di Michele Mariotti, autorevole e appassionata, nel sostenere lungo tutto il corso di un’opera così monumentale per ampiezza e drammaticità una narrazione sempre suggestiva e varia, con una particolare attenzione per il versante intimo e sentimentale dei personaggi. Gli hanno assicurato ottima risposta l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai e il Coro del Teatro Ventidio Basso, preparato da Giovanni Farina, che hanno contribuito al calorosissimo successo di pubblico riscosso da tutta la componente musicale. (1. continua)