Con un’esecuzione di rilievo belcantistico, dominata da una sorprendente Anastasia Bartoli, e una regia di ermetico impatto a firma di Calixto Bieito, Zelmira ritorna al festival di Pesaro quale opera da elencare tra i capolavori di Rossini. Davide Annachini
Il Rossini Opera Festival di Pesaro, giunto alla 46^ edizione, ha cercato di tenere fede al suo standard qualitativo anche in un’epoca di magra come questa, presentando un cartellone dai molti appuntamenti in cui la parte del leone toccava alla nuova produzione di Zelmira, opera di dimensioni monumentali e di grande responsabilità esecutiva. Ultimo lavoro realizzato nel 1822 per il San Carlo di Napoli, teatro di primissima importanza all’epoca dove Rossini aveva trovato terreno fertile per sperimentare una tipologia di melodramma serio del tutto inedita per i tempi, Zelmira si impone per l’ampio respiro tragico, per la struttura drammaturgica fuori dalle convenzioni e come sempre per le impervie richieste vocali, confezionate a misura per le voci straordinarie di Isabella Colbran, di Andrea Nozzari e di Giovanni David, un terzetto (soprano, baritenore e tenore acutissimo) sul quale Rossini aveva puntato per i suoi capolavori napoletani. Nonostante il successo immediato – anche all’estero, con la fortunata edizione viennese dello stesso anno – l’opera cadde nell’oblio per più di un secolo, come d’altronde quasi tutto il catalogo rossiniano, vuoi perché i gusti erano cambiati vuoi perché gli specialisti in grado di eseguire queste partiture erano scomparsi. Lo stesso festival pesarese, che per primo ha avuto il merito di riesumare tutto Rossini con la più attenta ricerca filologica e le migliori possibilità esecutive, aveva proposto quest’opera solo un paio di volte, in base alle disponibilità del momento di interpreti all’altezza.
L’occasione si è ripresentata quest’anno grazie a una compagnia di canto in grado di restituire attendibilità all’esecuzione, a cominciare dalla protagonista Anastasia Bartoli, che nel bissare il successo personale dell’Ermione dell’anno scorso ha confermato una vocalità ideale per i ruoli Colbran – la celebre moglie di Rossini, destinataria di queste grandi parti scritte per Napoli, a metà tra soprano e mezzosoprano – sia per la capacità di spaziare su un’estensione impressionante, per l’ampiezza e il timbro brunito della voce, per il virtuosismo usato a fini espressivi, sia d’altro lato per l’incisività interpretativa, per la presenza carismatica, per il rilievo drammatico assegnato al suo personaggio. La grande prova della Bartoli ha trovato come contraltare due validissimi tenori: Lawrence Brownlee, uno specialista nello scalare le vette sovracute e le più intricate agilità come quelle prescritte dalla parte di Ilo, ed Enea Scala, in grado di soddisfare con impeto e coraggio da vendere (anche a costo di qualche emissione talvolta stridente) le escursioni nel registro grave come in quello acutissimo cui l’ibrida vocalità di baritenore è sottoposta nel personaggio di Antenore. Affiancavano questo terzetto l’Emma cantata con classe e sensibilità da Marina Viotti, il Polidoro austero di Marko Mimica, il Leucippo di rilievo di Gianluca Margheri, assurto in questo spettacolo a subdolo tiranno della vicenda, in grado di plagiare e dominare la psicologia del nevrotico Antenore ai danni della coppia Zelmira-Ilo.
La compagnia – di cui facevano parte anche Paolo Nevi (Eacide) e Shi Zong (Gran Sacerdote) – ha trovato in Giacomo Sagripanti un direttore sensibile alle ragioni del canto e di questo canto in particolare, quanto mai attento a restituire la grandiosità drammaturgica e il rilievo belcantistico della partitura grazie anche all’ottimo contributo dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna e del Coro del Teatro Ventidio Basso, preparato da Pasquale Veleno.
Ma d’altro lato i cantanti sono sembrati aderire con totale partecipazione anche alla regia di Calixto Bieito, figura discussa nel passato per i suoi spettacoli provocatori (come non ricordare i famosi water di un Ballo in maschera a Barcellona, su cui sedevano i coristi con i pantaloni calati?), qui al suo debutto tardivo al R.O.F. Tardivo perché a più di vent’anni dalle sue scandalose regie – colme di nudi e sessualità esplicita – ora poco riesce ancora a scandalizzare, tanto che i baci tra uomini e tra donne di questo spettacolo sono passati come acqua fresca. Quella che è emersa è stata piuttosto una fragilità narrativa del regista spagnolo, ermeticamente legata a un’azione e a una relazione tra i personaggi poco chiara e troppo simbolica per appassionare e coinvolgere il pubblico, nonostante la convinta adesione degli interpreti. Detto questo, la messinscena firmata dallo stesso Bieito insieme a Barbora Horakova (costumi di Ingo Krügler, luci di Michael Bauer) si imponeva con grande suggestione grazie a una monumentale pedana luminosa che occupava l’intera platea dell’Auditorium Scavolini, obbligando lo spettatore ad un impatto a tutto tondo dell’azione e dell’esecuzione.
Questo però non è bastato a convincere il pubblico, che, dopo aver applaudito con grande calore tutta la compagnia e con punte accesissime la Bartoli, non ha lesinato i suoi dissensi nei confronti dell’indispettito regista, dispensatore a sua volta di baci al vetriolo ai fischiatori.
Visto al Rossini Opera Festival di Pesaro il 10 agosto