‘Classico’ del nostro tempo Jewels offre ai ballerini scaligeri l’occasione per brillare. E a noi per riflettere sulla vera natura dell’essere (o solo apparire) étoile
Nel repertorio ballettistico di fine Novecento che si sta profilando in questi ultimi anni grazie alle scelte ‘naturali’ delle grandi compagnie del mondo, il trittico Jewels di George Balanchine entra sicuramente di diritto. Nonostante la sua ‘astrazione’, e il fatto che si affidi solo alla pura danza per evocare tre culture coreutiche attraverso le quali si è sviluppato il vocabolario classico (la Francia, l’America, la Russia imperiale), è così evidente e indiscutibile la bellezza formale e poetica determinata dall’invenzione e dalla nostalgia che ammanta gran parte del lavoro (palpabile nonostante lo sfavillio dei Diamonds, nell’ultima magnifica sezione) che anche il pubblico meno esperto coglie il valore assoluto di questo grande titolo. Il quale di fatto può essere anche considerato l’anello di sintesi tra quanto codificato dalla tradizione e i potenziali futuri di quello che poi sarebbe diventato il balletto postclassico ‘à la Forsythe’.
È inoltre un balletto per tutta la compagnia, dove, senza alibi, si mette in evidenza grandeur, tecnica, stile, affiatamento e insieme si esalta l’intera gerarchia, dal corpo di ballo alle stelle supreme. Dopo il successo del suo debutto scaligero, tre anni fa, il ritorno di Jewels sulle scene del Piermarini fa giungere alla conclusione che in Italia nessun’altra compagnia di balletto possa affrontare un certo tipo di repertorio, oltre la Scala. Il lavoro del direttore Makhar Vaziev in questi anni ha del resto sicuramente giovato alla qualità complessiva dell’insieme, dove stanno emergendo delle belle personalità: quello che sembra mancare ancora è una vera étoile (anche in nuce), una solista nata e cresciuta in casa, con quella star quality che la rende unica. E forse questo è un handicap per chi, come il Ballo scaligero, ambisce ad avere un suo ruolo tra le grandi compagnie di balletto europeo. Se il comparto maschile, a parte i sempre importanti Roberto Bolle e Massimo Murru, ha per esempio in Claudio Coviello un giovanissimo in cui si intravedono grandi potenzialità da ‘étoile’, più confuso è il quadro femminile, dove certamente esistono delle ballerine interessanti – in questa produzione si è particolarmente distinta Virna Toppi, ballerina elegante e dalle belle linee musicali nel raffinato (e difficile stilisticamente) quadro d’apertura, Emeralds – ma ancora un po’ acerbe.
Essere una vera stella, del resto, è una qualità per pochissime. Al di là della tecnica, della personalità, della bellezza fisica, chi ha questa luce fa si che il ricordo della sua danza accompagni a lungo chi l’ha vista. In Diamonds la russa Polina Semionova – lanciata diciottenne da Vladimir Malakhov come prima ballerina a Berlino e oggi all’American Ballet Theatre – ha dimostrato di essere una Stella, perfetta per lo stile balanchiniano. Senza narcisismi inutili, solo declinando mirabilmente quello che Balanchine aveva concepito fondendo i ricordi dei grandi balletti di Petipa e Ivanov e facendoli essenza del suo eloquio danzante, offrendo la bellezza delle sue linee pulite e armoniose, Semionova ha dominato il palcoscenico del Marini, profondendo il profumo di una femminilità radiosa e olimpica, esaltata anche dalla cura attenta del suo partner, il raffinato primo ballerino dello Stuttgart Ballet Friedemann Vogel, la cui morbida classe ben si amalgama alla danza di Polina.
Ci sono poi i fuoriclasse, il cui estro, direbbero gli americani, è larger than life: e davvero famelico è il modo di stare in scena, divorando spazio, danza, partner. Sulla carta, per rendere ancor più ‘appettibile’ la ripresa di Jewels, di fuoriclasse ne erano annunciati due, destinati agli scatti jazz e alla velocità stilizzata del vermiglio Rubies: i supersonici russi Ivan Vasiliev e Natalia Osipova. Alla fine, avendo Osipova cancellato (ufficialmente) per una indisposizione, è rimasto solo Vasiliev. Il quale, grazie ad un virtuosismo strabiliante e un vigore incredibile, è diventato ben presto una superstar richiestissima in tutto il mondo sia in balletti di grande spolvero tecnico (il suo must è Don Chisciotte), sia in lavori moderni e contemporanei. Come Osipova e altri dell’ultime generazione di stelle ‘global’, Ivan si contraddistingue per la foga onnivora con cui sta ampliando il suo repertorio. Fatto comprensibile ma anche rischioso, dal momento che oltre al necessario tempo per poter assorbire e maturare un ruolo e uno stile (fondamentale se si vuole essere artisti oltre che formidabili esecutori), non sempre tutto si attaglia a tutti. Il corpo compatto, dai quadricipiti ormai ipertrofici e dalle linee corte del travolgente Vasiliev non si attagliano assolutamente, per esempio, alle rifiniture di Balanchine: cosa sulla quale volendo si potrebbe sorvolare, se il nostro mostrasse maggiore attenzione per lo stile e non interpretasse lo scanzonato ma elegante ‘cowboy’ di Rubies come uno di quei ‘buffi’ trottolanti, tipici del balletto sovietico d’antan. Certo che alla prima dello spettacolo, può aver giocato anche la sostituzione in corsa della sua partner d’elezione con la ‘scaligera’ Vittoria Valerio, comunque ottimo rimpiazzo e pieno di temperamento: ma resta la curiosità di investigare ancora il fenomeno Vasiliev per capire se e come potrà segnare la storia della danza del nostro tempo.
Visto al Teatro alla Scala di Milano il 9 marzo 2014. Repliche sabato 15 e sabato 29 marzo, gio 3 e ven 4 aprile
JEWELS
coreografia: George Balanchine
musica: Gabriel Fauré, Igor Stravinskij, Piotr Ilich Ciaikovsky
costumi: Karinska
solisti: Vittoria Valerio, Antonino Sutera, Virna Toppi, Mick Zeni ( Emeralds), Marta Romagna, Vittoria Valerio, Ivan Vasiliev (Rubies)
Polina Semionova, Friedemann Vogel (Diamonds)
Corpo di Ballo del Teatro alla Scala
Orchestra del Teatro alla Scala diretta da David Coleman